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L’ex vice di Benitez all’Inter ora realizza imprese con l’Alavés. Mauricio Pellegrino in esclusiva: “Allenare in Italia? Perché no”

Mappamondo davanti agli occhi e lente d’ingrandimento a portata di mano, indispensabile. Dito puntato su… Vitoria”. Niente? Saremo più precisi: “Vitoria-GasteizSpagna. Capoluogo de facto della comunità autonoma dei Paesi Baschi, non certo un dettaglio qualsiasi perché di mezzo ci passa un’intera cultura. Che attenzione, è totalmente diversa da quella spagnola. Ok, ci siamo. Adesso aguzzate bene la vista, con tanto di lente. Ora sì, necessaria: “Estadio Mendizorrotza”, circa 20 mila posti a sedere e un cuore che batte forte, quello del Deportivo Alavés. Per tutti Alavés e basta. Per gli intenditori semplicemente ‘El Glorioso’ dopo le imprese europee di inizio secolo, tra cui la vittoria a San Siro contro l’Inter il 22 febbraio 2001. Giocava Javi Moreno, ricordate? Fútbol ovviamente e non pallacanestro, primo sport cittadino. Oggi quel battito prosegue e pulsa incessante, in Liga. Nel nome di… anzi della “Vitoria”


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Pellegrino fa quello che gli piace in un posto che sta imparando ad amare. “E’ una delle città in cui si sta meglio in assoluto, la qualità di vita è altissima. Tutto pulito e ben curato, grande tranquillità, si mangia bene. Unica pecca? E’ una delle più care”. Famosa per “il vino e la pallacanestro”. Anche se ultimamente il calcio è lo sport che va per la maggiore. Pellegrino se la ride, sa di averla fatta grossa più di una volta. “Abbiamo pareggiato contro l’Atletico Madrid al Calderon, siamo riusciti a vincere al Camp Nou contro il Barcellona. Peccato aver perso contro il Siviglia al ’92”. Posizione in classifica: dodicesimo. Niente male per una neopromossa. “E dopo questo calendario qui” ci precisa lui. Mauricio è soddisfatto, i risultati gli stanno dando ragione e lui vuole continuare a sorprendere e far parlare di sé. Anche se manca qualcosina, e non si tratta di pallone. “La mia famiglia vive in Argentina. Non volevo far cambiare scuola ai miei due figli, non è mai facile. Aspettiamo fino a gennaio – lui ha firmato un annuale – vediamo come si evolvono le cose”. E poi forse potrà abbracciare i suoi piccoli per davvero e non solo nella foto profilo di WhatsApp. 


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Prima era ‘El Flaco’ e giocava con personalità e disinvoltura, ha fatto la storia del Valencia. Adesso lo chiamano ‘mister’ perché “è la prassi qui in Spagna” anche se lui “preferisco Mauricio”. Questione di empatia, classificare non fa per lui. E nel suo nuovo ruolo ci sa fare eccome, a modo suo però. “Più cose so della vita privata dei miei giocatori più riesco ad avvicinarmi al loro mondo. Non li voglio controllare, intendo solo capire le loro esigenze”. Mauricio ci spiega come vede il calcio da una panchina, in esclusiva. Con una premessa: avrà ripetuto cento volte sia ‘seguridad’ che ‘confianza’. “Cerco di trasmettere delle sicurezze. Attraverso quelle aumenta la fiducia. Noi lavoriamo tutti i giorni e tutti i giorni cerchiamo di migliorarci in aspetti differenti: è proprio questa ricerca costante e minuziosa che mi appassiona”. Arriviamo al nocciolo. “Individualmente, ognuno di noi possiede un limite. Ma il collettivo può crescere a dismisura. Ricorda: la squadra batte il singolo”. Detto, dimostrato. Barcellona-Alaves 1-2. “Che emozione!”. Un aneddoto su Messi. “Quando si alzò Messi dalla panchina (partiva fuori per infortunio) per il riscaldamento, sembrava che il Barcellona ci avesse fatto un gol. Immaginati cosa genera. E’ come se fosse un Dio. Mostruoso. Aveva la palla incollata al piede”. Ma Vittoria fu, comunque. “Non è facile contro queste squadre perché il giocatore di qualità che costa 15 milioni ti può risolvere un match con una sola giocata, a uno da tre milioni gliene servono quattro. Rispetto all’anno scorso abbiamo cambiato 18 giocatori ma siamo un gruppo umile che lavora tantissimo”. 


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Mauricio è argentino e lo si sente, soprattutto dall’accento marcato. Anche se “mastico sia l’italiano sia l’inglese. So difendermi”. Tanto che “all’inizio con Kristicic parlavo sempre e solo italiano, con Feddal uguale”. Un grazie a “Rafa Benitez”, i motivi sono molteplici e non solo di lingua. “Insieme a lui ho conosciuto sia la Serie A, all’Inter. Che la Premier. Sempre come suo secondo. Rafa è stato molto importante per la mia formazione, non solo professionale. Lo ringrazierò sempre”. Lungo la carriera di Mauricio Pellegrino anche altri grandi allenatori, due su tutti. “Ho conosciuto Mourinho, al Barcellona. Il primo allenatore era Van Gaal, il portoghese e Koeman erano i suoi due assistenti. José era molto vicino a noi giocatori, sempre in mezzo al gruppo a parlarci”. Poi? “Bielsa, al Velez e in qualche partita con la Nazionale. Fu speciale perché lui è speciale, soprattutto nel modo in cui cura l’aspetto offensivo delle squadre. Gli allenamenti… divideva il campo in zone… mi ha ispirato molto, ha stravolto la mia mentalità”. Un po’ come la sua esperienza italiana a Milano. “Il calciatore italiano è super attento a quello che noi chiamiamo ‘allenamento invisibile’. E’ davvero professionale fuori dal campo, molto di più che in Spagna, Inghilterra o Argentina. E mi riferisco a come cura la sua alimentazione, il sonno…”. Ma c’è altro, più a livello globale. “Il calcio italiano è ricco di diversità culturali che alzano drasticamente il livello di difficoltà: il campo del Cagliari è tutta un’altra cosa da quello del Torino. In Spagna c’è più uniformità. Nel vostro paese mi sono trovato benissimo”. Anche per il cibo forse, unico. “Ah, la pasta! che buona. A noi argentini fa impazzire quella cucina fatta di pane, gnocchi, ravioli…”. Carne? “Quella solo argentina, por favor!”. Giusto. Adesso però va di “mariscos, arroz e paella… valenciana!” in Spagna. Ma chissà, un giorno. Fare benissimo con l’Alaves per tornare ad allenare (come primo) in Italia? Maurizio non spegne la nostra provocazione. E replica in più lingue. “Porque no… perché no… why not?”. Stuzzicante. Per un futuro che si prospetta ‘Glorioso’.