Colpisce il silenzio, più dei detriti. Un giorno ad Amatrice: la Lazio, i bambini e il dolore di Lotito
Si ricorda tutto: “Lì abitava mio nonno”. Gira, si rigira. Indica ogni cosa: “Vedete la Chiesa di Sant’Agostino? Lì facevo il chierichetto”. Ora lì non c’è più niente, solo detriti. Silenzio. Resti di un terremoto maledetto: “E’ una situazione drammatica, mi fa molto male”. Graffi sul cuore, sì. Perché la famiglia di Claudio Lotito è originaria di Amatrice: “Ci ho trascorso l’infanzia, le mie vacanze più belle”. Quasi piange, lui. Ricorda e pensa. Alcuni amici non ci sono più, altri ancora lo abbracciano contenti. Si commuovono tutti. Per lui, per la sua presenza e vicinanza. Con lui, anche. Perché i suoi occhi sono lucidi e sinceri: “Quando ho letto i nomi delle persone scomparse ho provato dolore, ne conoscevo molte”. Ha portato la Lazio in visita da presidente, ha incontrato il sindaco, Sergio Pirozzi: “Se trovi un campo faccio venire la squadra, è una promessa!”. Gli sussurra piano piano, quasi in segreto.
Ha regalato un sorriso a chi ha perso tutto. A chi non ha una casa. “Grazie Claudio, davvero”. Frasi ricorrenti. E bambini su di giri, infatti. Perché i veri protagonisti sono loro. Le classi sono nei container, i giocatori entrano e regalano dei gadget, alcune magliette, tanti palloni. Clima disteso. Un autografo di Immobile può far distogliere la mente da quei giorni. Almeno per un paio d’ore. Lotito, poi, osserva tutto con orgoglio. Gli mostrano i luoghi che frequentava da bambino. I vicoletti, i parchi. “Ma il bar? C’è ancora?”. Domanda lui. “Distrutto”. Come quasi tutto il resto. Fermo. Come il Campanile e le lancette dell’orologio: “3.36”. I resti delle abitazioni si vedono benissimo, nitidi. Ma dentro è rimasto tutto come prima. C’è una sedia, una scrivania, un letto. I vestiti della sera prima poggiati sopra. Ti fai mille pensieri, ti crei mille storie, mille dubbi. Brividi. Gela anche Claudio: “Non esistono parole, non riesco a parlare…”. Lo segue Inzaghi: “Venivo qui con mio figlio, siamo stati all’Hotel Roma. Ora vedo solo macerie”. Nient’altro da aggiungere. Solo la delusione di Claudio, stavolta diverso rispetto al Lotito che tutti conosciamo.
Siamo abituati a vederlo in un certo modo, in giacca e cravatta. Tra frasi in latino e una contestazione costante da parte dei tifosi. Stavolta no, Lotito diventa “amatriciano”. Diventa un uomo come tanti tra la gente. Indossa il casco e la felpa dell’Amatrice, squadra con cui ha pure giocato: “Facevo il portiere”. Ispeziona le case insieme ai vigili del fuoco: “Presidente, non si potrebbe…”. Testardo lui, non ascolta nemmeno e si precipita dentro per guardare. Entra lo stesso perché in uno di quei portoni “c’era qualcuno che conosceva bene“. Guida i suoi giocatori dentro il centro storico: Felipe Anderson, Murgia, Marchetti, Parolo, Keita. Non ride nessuno. Patric si informa, chiede, indaga. Ma il suo volto è tutto un programma perché ancora non ci crede. “Tristezza”. Il tempo si è fermato e riparte lentamente. “Ricostruzione”. Anche attraverso iniziative simili. “Bisogna comprendere il potere mediatico del calcio” dice Lotito. Indirizzarlo, mandare un messaggio. La Lazio intanto c’è. Claudio pure. Diverso, umano. Poco presidente stavolta. Cittadino. In prima linea per ripartire e “dare una mano”. Come la sua gente, la sua Amatrice. I sorrisi dei bambini. Colpiscono i detriti, l’orologio fermo alle 3.36. Il silenzio di chi ha perso tutto. Quei vestiti sopra la sedia. Ma non la voglia di ricominciare a vivere.