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Diaw, cuor di papà. Il razzismo, la figlia Celeste, i gol col Cittadella: la storia di… ‘Djily’

Intervistare un calciatore davanti a una tv che trasmette cartoni animati? Fatto. “Pappa Pig, Frozen… ormai li conosco tutti a memoria”. Davide Diaw, attaccante del Cittadella, è papà di Celeste e interpreta il ruolo alla perfezione: attento, dolce, innamorato. “Qualche anno fa mi coloravo i capelli, creavo creste di ogni tipo e mi vestivo bizzarro ma adesso non posso presentarmi all’asilo in certe condizioni”. Aggiungiamo anche più maturo. “Il mio tempo libero è interamente per lei. Il nome Celeste? L’ho proposto io. Anche se il libricino dei nomi lo inseriva tra quelli da maschio credo vada benissimo anche per una femminuccia”.


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Lui spiega, racconta, gesticola. La piccolina, tre anni, fissa lo schermo e gli si avvinghia al collo. “Prima di andare a giocare una partita io le chiedo sempre quanti gol devo fare: a volte mi dice 10, altre 8 o 5. Insomma, decide lei. Magari un giorno ci prende per davvero”. Ma già così va benissimo perché Diaw sta trascinando il Cittadella verso le zone alte della classifica di Serie B a suon di reti: 11 in 22 partite. L’ultimo, a Pescara. “Ma è più difficile segnare in Serie B oppure nei dilettanti dove giocavi poco meno di 5 anni fa?”. La domanda sembra facile ma Davide va in crisi: “Non lo so te lo dire, giuro”, e ride. “Sicuramente a basket, quando ci giocavo da piccolo, ero scarso”. Dettagli, oggi, irrilevanti. 


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Si scrive Diaw ma si legge ‘Giau’. “Vai a spiegare tutta la storia…”. Nessun problema, ci pensiamo noi. Mamma italiana, papà senegalese: Davide è nato a Cividale del Friuli ma è cresciuto a Udine, dove ha vissuto fino a qualche anno fa. Italianissimo, quindi. Il colore della pelle non fa differenza anche se in passato è stato un problema. “Quando ero ragazzino si. Mi hanno messo in difficoltà. Mi hanno chiamato ‘negro’, certo. Però ho sempre saputo distinguere la ‘testa di c…’ da quello che è realmente importante nella vita. E aggiungo: ho sempre avuto al mio fianco persone che mi volevano bene e che mi hanno supportato nei momenti difficili. Io sono un ragazzo istintivo che non nasconde le emozioni”.

Andare in Senegal è in programma. “Non ce l’ho ancora fatta ma è un viaggio che voglio fare, è una terra che mi appartiene e che ho intenzione di vedere coi miei occhi. Ho tutta la famiglia da parte di mio papà che vive lì”. Davide Diaw ma non solo: c’è anche un ‘Djily’ di mezzo. “E’ il mio nome, sì! Quando lo hanno scoperto i miei compagni di squadra del Cittadella sono impazziti: adesso mi chiamano solo in quel modo”. Anche su WhatsApp, dove hanno due gruppi: “Uno per le comunicazioni importanti e uno per le prese in giro”, senza ds e allenatore ovviamente. L’idolo di sempre è Cissé. “Anche per il personaggio che è”. Il modello da seguire Luiz Nazario da Lima, Ronaldo. “Un giorno mi sono tagliato i capelli come i suoi al Mondiale in Corea e Giappone”.

Ma se Diaw non fosse diventato un calciatore oggi cosa farebbe? Ci pensa un po’. Butta gli occhi al cielo e ricorda quando giocava in D e si è rotto il legamento del ginocchio e avrebbe voluto smettere. Qualche anno dopo si è spaccato di nuovo ma non ha comunque mollato. “Prima di firmare per l’Entella ho fatto il magazziniere per un paio di mesi: probabilmente avrei continuato su quella strada e poi cercato altro di più stabile. Poi però è cambiato tutto. Ritrovarsi dalla D alla B a 24 anni non è facile, non ci credevo nemmeno io. Prima guardavo Caputo e Troiano dalla tv e poi ero ad allenarmi insieme a loro”. Oggi Diaw gioca e segna in B come se fosse tutto facile e guarda i cartoni animati in tv. Vi piace come storia?