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Atalanta nella storia. L’utopia diventa realtà in Ucraina

Minuto 43 di Atalanta-Manchester City, 6 novembre. Fallo di mano di Ilicic. Rigore per il City, già avanti 1-0. Tanti bergamaschi sono corsi a San Siro per salutare la Champions. È la classica notte da “grazie lo stesso”, la serata della riconoscenza di un popolo a una squadra eroica. Gabriel Jesus va sul dischetto pronto a dare l’estrema unzione. Sbaglia. Doveva essere la fine, diventa l’inizio di 35 giorni incredibili. 


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Ribaltare un destino già scritto, prima col pareggio di Pasalic, poi col primo trionfo in Champions contro quella Dinamo Zagabria che aveva dato un ostile benvenuto in Europa e infine con l’impresa che a Bergamo si racconterà per generazioni. Tre gol in Ucraina, senza Ilicic, senza Zapata, ma con 500 bergamaschi devoti alla loro Dea. 

Fede e mito. Atalanta era la divinità della caccia, capace di uccidere centauri e cinghiali. Con l’arco e con l’intelligenza. Frecce e razionalità, le armi usate per essere più fredda del gelo di Kharkiv. Per passare dal mito alla leggenda. Per essere storia. Domani, come ogni giorno a Bergamo, nascerà un bambino e riceverà la maglia nerazzurra. Una sorta di battesimo, un cordone divino e intergenerazionale. Legati a vita, in nome di una città. Quel neonato ancora non lo sa, ma la sua squadra ha definitivamente buttato la maschera. 

Era entrata nell’Europa più grande in punta di piedi e tre mesi dopo ha messo gli scarponi per calpestare la ragione. Solo un pazzo poteva credere alla qualificazione dopo aver chiuso l’andata a zero punti. Dopo i 5 gol di Manchester e l’infortunio del colombiano che l’aveva trascinata in Champions. Solo un pazzo o magari solo un visionario come Gian Piero Gasperini, che al suo primo anno a Bergamo rischiò l’esonero dopo 5 partite e ora ride con gli occhi lucidi. “Questa impresa è per Bergamo”, racconta dalla pancia di uno stadio in cui era entrato sperando di non ascoltare per l’ultima volta quella musichetta che si era guadagnato guidando un’orchestra di fiati e talento. 

La sentirà ancora. Il primo della storia della Champions ad accedere agli scontri diretti dopo averne perse tre di fila. Ci riuscì anche il Newcastle nel 2002/2003, ma dopo c’era un altro gruppo. Gli inglesi ci arrivarono con nove punti, l’Atalanta con sette. Il minimo storico, quanto basta per tornare a San Siro e tingerlo di nerazzurro. Scherzi del destino: 24 ore fa la Scala del calcio piangeva lacrime dello stesso colore, adesso è pronta a riaprire i cancelli per altri nerazzurri. Paradossi del fato, come essere aiutati da Gabriel Jesus, mancato carnefice 35 giorni fa ed eroe a distanza con una tripletta a Zagabria. L’Atalanta passa, aiutata da un ex bresciano come Guardiola. Bergamo esulta davanti a uno schermo, restando con le mani sul volto per aspettare la decisione del Var sul gol di Castagne. Due minuti di attesa, poi l’urlo della speranza. Venti minuti di resistenza e ripartenze. Le parate di Gollini, le zampate di Pasalic e Gosens. 


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È tutto vero, l’Atalanta passa. È nelle prime 16 d’Europa. Magari sfiderà il Liverpool o il PSG, il Bayern o il Barcellona. Caccia grossa, roba da Atalanta. Che si tratti della Dea o dei suoi sacerdoti. Sono piccoli e grandi allo stesso tempo, come quel ragazzo con la maglia numero 10 che balla e fa ballare. Nelle ultime partite ha preso a colpi di tunnel chi gli si metteva davanti. Una nuova Papu dance, il manifesto di un gruppo capace di superare ostacoli con ogni mezzo possibile. Un argentino bergamasco, sognatore e figlio del lavoro. Il ritratto della città che a due settimane dal Natale scende in piazza come per un mondiale. Tra poche ore Bergamo festeggia Santa Lucia in una settimana divina. Pagana o cristiana, cambia poco adesso. Per tanti Santa Lucia è il giorno più corto che ci sia. Perché viene buio presto, perché non c’è luce. Non ditelo a Bergamo.


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