Diana si racconta: “Il calcio come la scienza. Renate? La mia gavetta”
L’allenatore del Renate si racconta ai nostri microfoni, in esclusiva. Dal presente (e futuro) da allenatore, con la speranza di poter guidare una squadra da inizio stagione, ai ricordi di una vita da calciatore con gli amici Pirlo e Baggio. La nostra intervista.
Idee, concetti e voglia di provare ad innovare e migliorare come quella di un ragazzino alla prima esperienza. Aimo Diana, allenatore, si può riassumere in questa frase, ma in realtà non basterebbe a raccontarlo. Dopo quasi 400 presenze tra i professionisti, da calciatore, di cui una buona parte in Serie A, dal 2013 ha cominciato un nuovo percorso, quello da allenatore. Adesso allena il Renate, in Serie C nel girone B, squadra che dal suo arrivo ha saputo migliorarsi e migliorare rispetto ad inizio stagione – fermando anche squadre tecnicamente molto più attrezzate – e che ora prova, anche grazie alla conoscenza del calcio e delle idee del suo mister, ad uscire dalla zona play out per raggiungere al più presto la salvezza.
In esclusiva, ai microfoni di gianlucadimarzio.com, si è raccontato partendo dalle sue idee di calcio alla voglia matta di dimostrare da inizio stagione le sue qualità. Eh sì perché l’epiteto di “subentrante” o “salva squadre” un po’ gli va stretto, ma lui non ci pensa molto perché sa che deve fare la gavetta, quella che da calciatore ha saltato perché dalla Primavera del Brescia è passato subito in Serie A con i grandi. E la gavetta sta andando alla grande: 70 partite divise tra Feralpisalò, Pavia, Melfi, Sicula Leonzio e Renate raccogliendo, fino ad oggi, ben 103 punti salvando sempre le squadre dove il suo intervento era stato richiesto a stagione in corso.
“Come si entra da subentrante? Non è facile da spiegare. Ogni
squadra ha una sua anima, un suo essere e le sue problematiche. Io è quattro
anni che subentro in corsa e ho notato sempre la stessa cosa perché spesso ci
sono delle analogie dove subentri. Un allenatore che entra non può far altro che cambiare un
linguaggio precedente, deve cambiare quello che non ha funzionato. Non può
pensare di entrare in un gruppo e inculcare a questo le sue idee.
Deve
essere bravo, prima, a guardare una squadra a
studiarsela, vederla giocare. Arrivare capire le caratteristiche dei giocatori
e fare un lavoro di studio. Io con il Renate l’ho fatto. E poi devi essere
credibile appena entri in un gruppo nuovo. E questo lo dico in base anche alle
mie esperienze da calciatore. Un giocatore ci impiega 15 secondi a capire se un allenatore è
credibile o meno. E’ un’esperienza che ho maturato da giocatore. Devi dare un po’
di freschezza, un nuovo linguaggio e speranza”.
Idee e concetti come freschezza, nuovo linguaggio e speranza. Non entra in uno spogliatoio in punta di piedi, no. Lui ci mette il carisma e la forza di un leader, di un capo branco. Perché per lui, il leader carismatico in un gruppo di calciatori è solo uno: l’allenatore. “Quando arrivo in una squadra e parlo con i direttori
sportivi o i presidenti mi dicono ‘In questa squadra non ci sono leader’. Io
personalmente mi reputo contento se in una squadra non ci sono tanti leader.
Soprattutto perché il leader devi essere tu in primis che devi saperli guidare.
Perché i leader poi nelle difficoltà tendono a fare a modo loro, i leader
tecnici poi sono un’altra cosa. Il Baggio della situazione lo era, non diceva una
parola in spogliatoio ma si faceva sentire in campo.
Quando sento dire che in questa o quella squadra ci sono tanti leader,
dubito. Il leader a volte incentra molto su se stesso e tende a fare gruppo con
alcuni nello spogliatoio e non va bene. L’allenatore deve saper fare scelte
impopolari e dimostrare lui di essere il leader del gruppo”.
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Aimo Diana, le idee di calcio e la figura dell’allenatore “fuori forma”
“Non mi sono mai piaciuti gli allenatori fuori forma. I miei giocatori lo sanno: quando finisce la loro sessione inizia la mia. Voglio essere sul pezzo e tendere alla perfezione dei dettagli. Il giocatore deve vedere davanti a sé un allenatore che rispecchi appieno le sue idee, con una coerenza mentale e fisica. Io sono un paio di mesi che non mi alleno come vorrei e la soffro questa cosa perché sono focalizzato sul campo. E sto già pensando a come rimettermi in forma e fare qualcosa. Ma è perché come caratteristiche da calciatore avevo voglia di allenarmi e tenere in forma il mio fisico”. Sportivo prima ancora di essere un allenatore perché anche l’aspetto fisico, oltre che quello mentale, in fonde rispetto ai tuoi giocatori, ma lui ha le idee chiare e sa cosa vuole proporre e quali sono i suoi obiettivi da allenatore.
“Subentrando non hai costruito tu una squadra, non hai preso
o provato a prendere giocatori che vuoi tu per la tua idea di gioco, il tuo concetto di
calcio. Quando sono arrivato qui a Renate mi sono adattato e per me questa è una
grandissima palestra. Perché devo tirare fuori il meglio e studiare soluzioni
nuove. Nel fare questo mi ispiro ad Ancelotti e Guardiola, ma poi noi giovani
allenatori dobbiamo essere bravi ad andare oltre: se noi non portiamo nulla di
nuovo a questo calcio – che sia una giocata o una soluzione innovativa
all’interno della partita – allora non andiamo da nessuna parte ed è giusto
che questi mostri sacri inculchino dei metodi di gioco che poi diventano unici. Scimmiottare va bene ma poi devi avere qualcosa di tuo.
Nel calcio non si è già sperimentato tutto. La tua idea di calcio e il modo di proporla te la indicano sempre i giocatori che hai a disposizione. Più andremo avanti e più il calciatore si evolverà maggiormente, e poi si potrà proporre qualcosa di diverso. Questo già si vede: alcuni giocatori, in campionati stranieri ma non solo, giocano in ruoli non propriamente loro magari per condizione fisica o atletica però già lo fanno. Questo mi fa pensare che come la scienza anche il calcio andrà avanti“. Il calcio come una scienza, come un grande laboratorio dove sperimentare idee e concetti nuovi da proporre poi in campo, ma a volte in Italia è un po’ complesso riuscire in questo (nobile) intento:
“Nel calcio italiano non hai tempo di proporre le tue idee, di sperimentare quello che hai in testa, non c’è tempo, conta il risultato. In Italia, a volte, tre sconfitte comportano un esonero. Noi allenatori a dispetto delle nostre idee dobbiamo trovare l’equilibrio che è quello che ti dà risultati e ti permette di andare avanti. Nella mia poca esperienza, secondo me, ho dimostrato di saper plasmare squadre non mie portando risultati“.
Andrea Pirlo e Roberto Baggio
Nella sua carriera ha giocato al fianco di grandi calciatori: Adriano, Gilardino, Mutu, Nakata, Doni e molti altri, ma chi gli è rimasto nel cuore sono Andrea Pirlo e Roberto Baggio. Il primo non poteva essere altrimenti: viveno ad un chilometrro di distanza uno dall’altro e hanno iniziato assieme a giocare il calcio, con il secondo invece è nato tutto per la profonda stima per l’uomo ancora prima che per il grande calciatore:
“Con Andrea ne ho vissute tante… potrei raccontarne una marea di partite e di esperienze vissute assieme. A 8 anni abbiamo iniziato a giocare assieme nella società satellite del Brescia. Suo padre ci portava al campo e sua mamma a casa. Le avventure più divertenti vissute assieme? Un paio di volte siamo scappati dal ritiro per andare a incontrare la ragazzina di turno. Quando rientravamo l’allenatore era ì sempre pronto a coglierci con le mani nel sacco. E con noi spesso c’era anche Bonazzoli… Andrea poi a tutti dà l’impressione di essere un freddo, ma in compagnia fa morire dal ridere. Altre storie? Quando eravamo in ritiro dormivamo sempre assieme. E un sacco di volte si svegliava la mattina e non mi trovava più in stanza… io ero sonnambulo ed ero in giro per il centro tecnico e se non mi trovava nel letto mi trovava con le scarpe ai piedi.
Si vedeva da subito che era diverso dagli altri? Si. Ma anche oggi se vai a vedere giocare dei ragazzini ti rendi conto che alcuni sono una marcia a vanti rispetto agli altri, ma lui ha sempre mantenuto la distanza da noi “normali”. Quando è cresciuto è migliorato perché era un lavoratore e ha sempre mantenuto la distanza sugli altri e infatti è arrivato primo in tutto rispetto ai ragazzi della nostra generazione. Più andavamo avanti e più lui era due passi davanti a noi. Aveva qualità morali e calcistiche diverse anni luce da noi“.
Se a Pirlo lo lega una profonda amicizia è forse a Baggio che pensa con più nostalgia quando gli chiediamo di raccontarci l’uomo lontano dalle telecamere: “Grande persona. Incredibile dal punto di vista umano. Non
ti faceva pesare chi era lui. Non faceva parlare di sé, parlava poco ma quando
lo faceva si faceva sentire. Ancora oggi quando lo vedo penso che è rimasto
sempre lo stesso. Dispiace solo una cosa: a volte pensiamo che questi campioni facciano
una vita incredibilmente bella ma non è così. Non fanno una vita bellissima. Non
possono uscire di casa, sono osannati da tutti quanti quando sono esposti e non hanno la tranquillità di viversi le piccole cose quotidiane.
Ovunque andassimo lui doveva
stare in una stanzetta da solo perché era osannato e non poteva muoversi. Dopo
le gare gli chiedevamo di uscire a mangiare un pizza o andare al cinema. E lui
non poteva, ci diceva sempre: “Sai da quanto non ci vado con mio figlio al
cinema?” Non ha una vita incredibile. La sua vita e quella della sua famiglia è chiusa. Lui poi era un
chiuso anche caratterialmente e quindi non lo soffre e non lo soffriva anche perché lo ha voluto fare per proteggere la sua famiglia e la sua privacy. Come? Vivendo in
campagna e di caccia lontano da tutti e dagli occhi dei riflettori.
Era
difficile anche per noi entrare nella sua vita. Finita la cena si beveva il suo
grappino, la sigaretta con Hubner e poi andava in camera. Fino al giorno dopo
non lo vedevi. Certo che poi lui i tifosi li capiva, a Brescia Baggio era come il Papa. Era umile e lo è ancora oggi. Aveva gli atteggiamenti di un tempo, di
Campioni di un tempo, che non ci sono più: gesti e modi che li distinguevano in
campo e fuori e permettevano loro di essere amati e osannati”.
Quello che poteva essere da calciatore: possibilità non colte e sfortuna più che rimpianti, come il Mondiale 2006…
Non si piange addosso Aimo, lui è abituato a guardare avanti e crede fortemente che per ottenere dei risultati servano sacrifici e lavoro. Non si guadagna tutto fortunosamente. Se una cosa non accade si deve guardare avanti e non farsi cogliere dalla delusione, tutto accade per un motivo. Come il Mondiale del 2006 perso per colpa di una pubalgia che non gli dava tregua:
“Lo avrei fatto quel Mondiale, sapevo di essere tra i convocati. Ma stavo talmente male che, davvero, non vedevo l’ora di operarmi e alla fine è andata meglio così per me, certo avrei voluto esserci… ma chi lo dice che magari con me quella Coppa non l’avremmo alzata? (ride ndr). Potevo anche andare al Liverpool, che in quel momento era una squadra importante, e non sono andato perché non volevo uscire dal calcio italiano. Poi sono stato vicino alla Juve e al Milan, tornassi indietro romperei più le b***e come fanno ora i giocatori, ma io stavo bene dov’ero in quel momento e non mi sono imputato, mi andava bene così. Poi sono sincero: ero arrivato ad un punto dove none ero più migliorabile. Poi con l’avanzare dell’età ho iniziato ad autogestirmi e lì ho capito che stavo per finire”.
Sincerità e un animo profondo e tenero che la corazza da duro che si è costruito forse, al primo impatto, non lascia percepire: “Ho 13 tatuaggi, tutti con un significato e tutti raccontano qualcosa di me. Ne ho uno dove c’è il nome di mio padre
con un Angelo di Protezione, sull’avambraccio sinistro, con una scritta: “Proteggi la mia famiglia”. Lui è
mancato nel 2002 e l’ho voluto fare in questa parte del corpo perché tutti i giorni lo posso vedere ed è come se fosse qui con me”.
Un leader buono con tanta voglia di arrivare e raggiungere i suoi traguardi. Con il carisma di un leone e la forza di una dea italica, come il suo cognome suggerisce. Diana è questo: un allenatore severo e giusto con i suoi ragazzi, in campo, e una persona che si gode le piccole cose della vita, fuori. E con un sogno – nemmeno troppo nel cassetto -: lasciare la sua impronta nella storia del calcio, magari come un allenatore innovativo e vincente. E per farlo parte tutto dalla gavetta che, al momento, si chiama Renate.