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Vola la Juve Stabia, Fabio Caserta: “A otto anni stavo per morire, ora non smetto di sognare”

Che nella vita nulla accade mai per caso è asserzione senz’altro tautologica. La fortuna e la sfortuna, d’altronde, alla fine del giorno finiscono più o meno sempre per bilanciarsi (il resto sono alibi…). La vera discriminante siamo noi, è la nostra volontà di lasciare un segno tangibile dell’esserci stati. Il non esaltarsi nelle vittorie, il rimanere lucidi nelle sconfitte. L’equilibrio. Nella società degli eccessi e della spettacolarizzazione.

E, giustappunto, non è il caso ad aver portato Fabio Caserta, stra-meritatamente, agli onori delle cronache con la sua Juve Stabia che vola (anche metafisicamente) nel girone C di Serie C con trentadue punti in tredici partite, ventinove gol fatti, appena sei subiti, zero sconfitte, più sei sulla seconda che ha anche una gara in più…e vai, a mo’ di jukebox con i rotocalchi delle statistiche, ad ogni gettone corrisponde una compilation da record.

Abbiamo incontrato Fabio, ci ha raccontato a cuore aperto la sua storia. Di quelle che ad un certo punto ti lasciano senza fiato, di quelle che ti fanno venir voglia di metter la mano sulla spalla del tuo interlocutore e dirgli, ‘beh Fabio, che la vita ti regali tutte le fortune di questo mondo perché te le meriti tutte’. La storia di Fabio lascia un vuoto lacerante di riflessione, la necessità di fermarsi lì – un’ora, seduti da soli al bar – a meditare sul senso della vita e sulla vanità delle nostre inquietudini, su quanto sia fittizio e inutile il nostro continuo lamentarci. E la semplicità con la quale mi racconta è ciò che più mi colpisce: non si nasconde, parla a cuore aperto, come se volesse mandare un messaggio di vita vera a tutti noi… Non mollate mai ragazzi, mai, mai, mai. Anche quando tutto vi sembrerà nero, anche quando non vedrete l’ora che quella giornata finisca. Il sole il giorno dopo sorge di nuovo e sorge per tutti…”.

Cominciamo dall’inizio. Allusione non banale in un mondo dove siamo abituati a partir dalla fine, dal ‘raggiunto’ piuttosto che dall’ ‘ottenuto’, dal ‘risultato’ piuttosto che dallo ‘sforzo’… A otto anni stavo per morire, anzi mi davano proprio per morto dopo un incidente gravissimo insieme a mio nonno. Eravamo sul suo Ape tre ruote quando un Ducato ci prende avanti e ci schiaccia contro il muro, di quel giorno mi ricordo tutto come se fosse ieri, ho i brividi, me lo vedo ancora negli occhi quel furgone che ci fracassa sul lato della strada. Mio nonno prima dello schianto mi prende in braccio e mi salva la vita. Una vita, la mia, che da quel momento in poi, per buonissima parte di adolescenza, è stata un girovagare continuo tra ospedali. Controlli, operazioni, la paura di non farcela. Quando mi ricoverarono dopo l’incidente, gli infermieri chiamarono il Prete della Parrocchia perché dissero a mamma che tanto non avevo più nessuna possibilità di vivere. Mamma si arrabbiò e senza pensarci due volte mi prese e disse ‘ora lo portiamo in un altro ospedale’. Otto anni, avevo otto anni…”. Rifletto sulla frase più giusta da dirgli, non ne trovo nessuna. Perché non a tutto c’è una risposta, non per forza dobbiamo dire la nostra. A volte serve il silenzio, un minuto circa, poi andiamo avanti con le parole tremanti di Fabio che fanno venire la pelle d’oca…

“Per fortuna mi riprendo, ma i dottori erano stati chiari con i miei genitori… ‘vostro figlio non potrà mai praticare nessuno sport’, solo palestra per la riabilitazione. Giornate e giornate a star lì, a far gli esercizi da solo con tre attrezzi o la parete tutta grigia, avrò avuto dodici anni. Non ce la facevo più, volevo stare con i miei coetanei, con i miei cuginetti. Volevo sentirmi uno di loro, volevo essere come loro, volevo fare quello che facevano loro. Così convinco mamma ad iscrivermi a karate. Mi piaceva, mi faceva sentire come i miei amici, mi faceva dimenticare quel terribile incidente… poi un giorno malgrado avessi vinto le gare regionali per prendere la cintura nera, il mio maestro non voleva darmela perché diceva che non frequentavo abbastanza. Il giorno dopo vado da lui e gli dico senza giri di parole, ‘va bene maestro, questa è la mia cintura marrone, tienitela, io non vengo più’…”.

Arriva il calcio nella vita di Fabio Caserta, un po’ alla volta. Prima alla domenica pomeriggio, nella via sotto casa, poi nella squadra della sua città… “Un giorno, facevo gli Allievi, mi succede un episodio che mi ha ammazzato letteralmente. Dovevamo giocare su un campo praticamente allagato, prima della partita il mister mi indica e davanti a tutti mi dice… ‘Guarda Fabio, tu non puoi giocare perché sei troppo magro. La partita di oggi non fa per te’. Quelle dieci parole mi hanno fatto crollare il mondo addosso. Mi sono sentito umiliato, davanti a tutti in quel modo. Il tempo di rivestirmi e tornare a casa, sono stato un giorno intero in camera da solo con quella frase ‘tu non puoi giocare perché sei troppo magro’ che risuonava continuamente nella mia testa fino a farmela esplodere. Lì pensavo di aver davvero chiuso con il calcio, ‘mamma, papà io non ne voglio più sapere niente’. Il brutto – racconta Fabio Caserta ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com – è che quello che è successo a me, capita quotidianamente a tanti bambini nelle scuole calcio, dove vengono mortificati dai propri allenatori. A quindici o sedici anni devi farli sfogare i bambini, devi farli divertire, devi coccolarli quando sbagliano non dargli addosso per una diagonale. Fin quando nei settori giovanili piuttosto che incentivare la crescita dei ragazzi si asseconderà lo sfogo delle frustrazioni degli allenatori, credetemi che il sistema non migliorerà mai…”. Parole posate, corrette, eleganti, giustissime.

E’ nello spessore umano, pratico e comunicativo, la proiezione di chi siamo. E Fabio Caserta è una persona vera, sincera e di una forza d’animo incredibile, sensazionale. Figlio di una semplicità che fa invidia, di un sorriso che non cela nient’altro, di una posatezza nei modi che ti colpisce al primo impatto… “Se non fossi arrivato nel mondo del calcio, oggi avrei fatto il parrucchiere. Mi piaceva molto dare una mano a mio fratello, poi a scuola non avevo molta voglia quindi già mi prefiguravo di lavorare lì”.

Poi l’episodio che ti cambia, di nuovo, la vita. La forza centripeta del calcio, il richiamo della palla che scorre sul rettangolo verde, l’odore dell’erba sul finire della partita, la passione di chi ci sta intorno… “E l’allora allenatore della prima squadra che mi fa cambiare idea, così torno a giocare. E da lì comincio la mia scalata, avevo 18 anni. Di ricordi ne ho tantissimi. Le risate con i compagni poi… A Palermo con Miccoli era uno show… Cassani si divertiva a provocarlo… ‘Fabri sono dieci volte più bello di te’… così Miccoli un giorno ci fece piegare dalle risate… ‘Sì, Cassa ma c’è solo una differenza. Sai qual è? Che se do appuntamento a una ragazza alle 20.30 io le dico di affacciarsi al balcone, tu di scendere di sotto. Perché io la passo a prendere con l’elicottero, mica come te…’. Ma anche a Catania con Mascara e Morimoto scherzi e risate non mancavano…un giorno Peppe gli mise una mozzarella di bufala da 250 g in bocca, gli tappò il naso e gliela fece mangiare in un sol boccone…ebbene sì, Morimoto ci riuscì! Andò diversamente con i famosi quattro pacchetti di vigorsol da masticare insieme, ma qui sorvoliamo….”.

Ci perdiamo nel dolce mar delle risate. Il mare più bello, più soffice, quello che non ti abbandona mai. E’ un po’ come se fossimo due amici al bar, a parlare davanti ad un bel bicchiere di Jack prima di andare al letto. Fabio ricorda, racconta, sorride. Non ha maschere, non ha veli, non ha filtri. Poi veniamo al presente, a questa strepitosa Juve Stabia che, nelle prime tre divisioni dei maggiori campionati d’Europa vanta la seconda miglior difesa insieme al Manchester City e dietro soltanto al Liverpool“Ho visto quella classifica, ma le statistiche sono le statistiche, la realtà è la realtà. Come dico sempre ai miei ragazzi, se vogliamo far parlare di noi abbiamo soltanto una strada: testa bassa e pedalare… Credo nella gavetta, nel lavoro, nel sacrificio e nell’affetto della gente che qui è incredibile. La piazza di Castellammare è fantastica, pazzesca. Qui la gente vive di calcio, ti fa sentire uno di loro, è come se fossimo tutti una cosa sola ed è questa la nostra forza… ogni ragazzo è pronto a sputare il sangue per aiutare il compagno in difficoltà. Per me davvero Castellammare è casa, è vita, è tutto. Non scorderò mai e poi mai quella volta, dopo il pareggio contro il Crotone quando mi chiamarono sotto la Curva per stringersi attorno a me dopo la morte di mio fratello, quando volevo smettere di giocare a calcio. Castellammare è questo: è passione, è sincerità, è amore incondizionato…”.

Teniamoceli stretti i nostri ricordi, perché un domani anche noi saremo i nostri ricordi. Perché chi ci ama è sempre con noi: c’è quando abbiamo bisogno, c’è quando abbiamo bisogno di qualcuno con cui parlare, c’è anche quando pensiamo che non ci sia… Da quel momento in poi ho capito che tutto quello che riuscirò a fare sarà per lui. Era il mio primo tifoso, era orgoglioso di me, quando si parlava di me gli si illuminavano gli occhi. Mi piace pensare che lui da Lassù sia sempre qui, accanto a me e che non mi lasci mai. Perché la mia famiglia è la mia vita ed io voglio che tutti noi siamo felici. Nient’altro, mi basta questo…”.

Saluto Fabio, poi ripenso alla sua storia anche se ormai sono passate diverse ore da quando ci siamo visti. Separati da migliaia di chilometri, gli rimetto di nuovo la mano sulla spalla e gli voglio ripetere una cosa… ‘Caro Fabio, che la vita ti dia tutta la fortuna del mondo. Te la meriti. Tutta”.

Credit foto: Gargiulo fotografi