Dal Milan di Rocco alla Nazionale, settantotto anni di un mito: tanti auguri a Giovanni Trapattoni
Ventinove giugno 1958, di fronte Milan e Como per la terza giornata di Coppa Italia. Finisce 4 a 1 per i rossoneri e in campo c’è un ragazzo sconosciuto, con la maglia numero 4: immagini sbiadite e un po’ ingiallite dal tempo, ma il volto è inconfondibile. Cinquantanove anni dopo l’esordio, quel ragazzo sarebbe diventato l’allenatore più titolato d’Italia e un mito assoluto del calcio italiano. Giovanni Trapattoni compie oggi gli anni e nonostante le settantotto primavere, la passione e l’entusiasmo sono gli stessi di quel lontano 1958. Cinquantasette anni di trionfi, emozioni e di esperienze. Ma l’inizio, come ogni favola che si rispetti, non fu semplice.
A quattordici anni già lavorava, perché nel dopoguerra, finite le medie, in pochi potevano permettersi di continuare gli studi. Allora ecco il compromesso: di giorno si lavora, di notte si gioca. Poco importa se il campo è in terra battuta e le partite si giocano con luce artificiale, “Giovannino” non sentiva fatica con la palla tra i piedi. Dalla squadra dell’oratorio di San Martino, passa al Frassati e quindi al Cusano: qui la svolta. Il Milan lo nota e così ha inizio la sua leggendaria carriera. Ventinove giugno 1958, come detto. Solo l’inizio. Con il Milan “sanguisuga” (così lo chiamavano gli avversari) ha giocato 351 partite e segnato 6 gol, in Nazionale 17 volte e una rete. Il numero di trofei non è pari a quello delle candeline, ma non c’è male: due Coppe dei Campioni, due Scudetti, una Coppa Italia, una Coppa Intercontinentale e una Coppa delle Coppe.
Tanti i campioni affrontati in carriera, da Cruyff a Di Stefano, da Eusebio a Pelè, letteralmente annullato in un Italia-Brasile del 1963. Una breve parentesi al Varese e via alla seconda fase della sua carriera, da allenatore. Gavetta nelle giovanili del Milan e poi la prima squadra. L’esordio in panchina nel campionato 1973-1974 quando prende il posto di Cesare Maldini. Nel 1975-1976 la prima stagione da protagonista, con il terzo posto finale. In panchina diventa famoso come il “Trap“. Juventus, Inter, Bayern, Fiorentina, Benfica tra le altre… e per non farsi mancare nulla, la Nazionale Italiana e quella d’Irlanda. Risultati? Sette scudetti in Italia (record assoluto), un campionato tedesco, uno portoghese ed uno austriaco. Una Coppa dei Campioni, tre Coppa Uefa (altro record), una Coppa delle Coppe, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa Uefa. Un mito assoluto tra gli allenatori italiani e uno dei personaggi più amati in assoluto del nostro calcio.
Dalla famosa conferenza stampa del quale gli stessi tedeschi capirono poco, se non “Strunz”, all’acqua santa sparsa prima di Italia-Corea del Sud nei Mondiali del 2002, sono tanti gli aneddoti che hanno reso Trapattoni unico e che il Trap raccontò ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com . Una lunga carriera con il Milan di Rocco, quale la vittoria più esaltante? “Ho avuto la fortuna di vincere molto da giocatore con il Milan, ogni grande successo ha un posto speciale nel mio cuore. Però, se proprio devo sceglierne uno in particolare, dico la Coppa dei Campioni vinta nel 1963 contro il Benfica di Eusebio nella finale di Wembley. Fummo la prima squadra italiana a vincere il trofeo. Indimenticabile”.
Da calciatore qualche “scappatella” se la è concessa: “Di cose particolari in un gruppo e in uno spogliatoio ne succedono sempre tante. Erano altri tempi e c’era molto più rigore. Nonostante questo c’era qualche “scappatella” dai ritiri e quando ci beccavano scattavano puntualmente le multe. Era l’unica concessione che ci permettevamo, ma eravamo giovani, ci poteva stare”. Più bello vincere da giocatore o da allenatore? “Sono due cose totalmente diverse. Quando vinci come giocatore lo fai quasi in maniera irrazionale, dai il tuo contributo a una squadra e a un gruppo e la vittoria non dipende solamente da te. Quando sei allenatore sei più grande e più maturo e le scelte e le azioni devono essere più razionali. Vincere da allenatore ti regala un tipo diverso di emozioni e soddisfazioni”.
Ci racconta gli inizi in panchina? “Ho vissuto tante belle esperienze a cominciare dalla primissima, quella con il Milan. Prima le giovanili poi la prima squadra. Nel 1975-1976 ho ottenuto un importante terzo posto, ed è lì che è cominciato il mio sogno di diventare allenatore: mi sono convinto che potevo intraprendere questa carriera ed è stato un passaggio molto significativo per me. Poi sono andato a Torino ad allenare la Juventus e lì la struttura della squadra era ben organizzata e mi ha permesso di vincere subito uno Scudetto e una Coppa Uefa. A quel punto sono entrato nel circolo dei grandi allenatori, il che non mi ha fatto pensare di essere diventato già importante, ma famoso quello sì. Vieni messo sulle prime pagine di tutti i giornali e questo chiaramente ti fa acquistare popolarità”. Poi mica è finita lì… “Naturalmente no! Ho vinto la Coppa dei Campioni, l’Intercontinentale, ho vinto lo Scudetto dei record con l’Inter, altro bel passaggio della mia carriera. Tanti titoli e poi ho deciso di andare all’estero, il passaggio più difficile. In Germania non conoscevo nemmeno una parola di tedesco, poi Portogallo e Austria. Sono state tutte tappe importanti, vaccini nuovi lungo la mia carriera”.
Alla guida della Nazionale non ha avuto altrettanta fortuna: ha ancora l’incubo di Byron Moreno? “Devo dire che non siamo stati molto fortunati. A parte Moreno, che indubbiamente ha avuto il suo peso nel 2002, ci sono stati diversi infortuni che hanno reso difficile quella avventura mondiale. Penso a Baggio: non mi fu possibile convocarlo e fu una grave perdita. La condizione fisica di Nesta, poi, mi obbligò a farlo giocare in condizioni precarie pur di non rinunciare a lui, perché era un giocatore fondamentale. Sicuramente c’è stato anche qualche errore mio sulle scelte. Ecco, la delusione più grande della mia carriera è legata proprio a non aver vinto qualcosa di importante con gli azzurri”.
Tante le esperienze all’estero: “La migliore? Senza dubbio quella con il Bayern, dove ho vinto lo Scudetto e la Coppa di Germania, un trofeo ritenuto importantissimo. Il Bayern è una squadra blasonata, abituata a vincere un anno sì e un anno no. Ma in quel periodo per un italiano guidare una società tedesca era un’impresa non indifferente. Creare poi un’identità di gioco e la giusta intesa allenatore-squadra, con giocatori di alto livello e vincenti che già in passato avevano alzato trofei importanti, non fu affatto semplice. Un esperienza da incorniciare”. Nel calcio ha vinto tutto: qual è il più grande regalo che può riservarle il futuro? “Spero di avere la salute in famiglia che è una cosa importantissima, per restare insieme a mia moglie il più a lungo possibile. Ecco, dopo i molti successi sportivi, questo è il più bel regalo che mi può riservare il futuro. Sono tanti anni che sono legato a lei e fortunatamente viviamo ancora assieme: questa è la cosa a cui tengo di più e che ha maggior valore per me”.