‘Post fata resurgo’… Il Dg Filippi si racconta: “Juve Stabia, torneremo a vivere notti magiche! Unica maglia e unico amore, ormai sono sedici anni…”
In una pseudo ‘letteratura calcistica’ possiamo individuare due tipi di racconto: le storie (di calcio) e le favole (di calcio). Lasciando da parte tutti gli espedienti euristici di differenziazione dell’una rispetto all’altra, possiamo rintracciare quale differenza principale la minor diffusione di quest’ultima species. Essa, infatti – tanto per riprendere una delle fantomatiche categorie soprattutto per rispondere ad un mero bisogno classificatorio delle nostre menti – estrinseca una morale forte, un contesto valoriale importante. Le storie, invece, sono semplici racconti: altro non sono che enucleazioni diacroniche di una serie di eventi messi in ordine.
Purtroppo non siamo più abituati alle favole. E non posso far a meno di palesare una certa preoccupazione per un mondo nel quale moralità e valori vengono relegati tout court ad una dimensione meramente privatistica. E, anzi, rappresentano uno di quegli aspetti – per dirla in parole povere ma proprio per questo, forse, maggiormente efficaci – ‘se non ci fossero sarebbe meglio’. E’ il pensiero di chi questa morale e questi valori ce li vuole imporre: più o meno coattivamente, attraverso una persuasione sottile della cui assuefazione nemmeno ci rendiamo conti. Viviamo in una società in cui tutto, o quasi, è ‘etero-imposto’. E la tendenza, assai triste, è quella di una pervasione mentale sempre più marcata, sempre più totalizzante. Si è arrivati, addirittura, ad imporci lo studio e l’apprendimento di una lingua. Oggi se non sai l’inglese non puoi far nulla (o almeno così ci dicono). Ti mettono nelle condizioni di conformarti. E’ come una rete, fin troppo sottile, dalla quale non puoi divincolarti. Ma il quesito che tutti dovremmo porci è forse il seguente: tutti questi – presunti – comfort valgono la privazione della nostra più intima libertà?
Riprendendo il discorso di cui sopra, raccontiamo una favola. Valori, tradizione, forte senso di appartenenza, amore incondizionato per la propria terra e per le proprie radici. Una favola a tutti gli effetti. Anche per dimostrare, alle illustre menti di qualche super letterato, che – riflettendo bene, in maniera compiuta e non di comodo (come va molto di moda al giorno d’oggi) – la parola ‘calcio’ in fondo non è antitetica ad un bel niente. Ce lo dimostra, dunque, la favola di Clemente Filippi, direttore generale della Juve Stabia. Da sedici anni al servizio della Juve Stabia, unica maglia e unico amore. La squadra della sua città quella nella quale è nato e cresciuto. Quella senza la quale non potrebbe vivere, “perché lì dentro c’è tutto me stesso”. Una trasmigrazione di sentimento sincero, che ancora oggi lo porta a commuoversi per una vittoria in un derby.
“Ho fatto dieci anni da addetto stampa, poi ho lavorato in segreteria, ho ricoperto il ruolo di team manager e nel 2011 sono stato promosso a direttore generale. La mia vita è sempre stata legata a doppio filo alla Juve Stabia: quando ero bambino la seguivo da tifoso, in età adolescenziale da giornalista e poi da ormai sedici stagioni a questa parte ci sono dentro. La Juve Stabia è la squadra della mia città, il mio unico amore calcistico, credo proprio che alla vita non avrei potuto chiedere niente di meglio. E’ un po’ come quell’amica che c’è sempre stata e ci sarà sempre. Io un sabato o una domenica senza Juve Stabia davvero non riesco ad immaginarmeli. E’ parte di me. Pensa, ogni tanto ricordo la prima partita che sono andato a vedere. Giocavamo a Scafati perché stavano ristrutturando il Menti: me la ricordo come se fosse ieri. Juve Stabia-Reggina 2-0 con reti di bomber Prima e Tognarini. Poi una festa incredibile e il ritorno tra i professionisti. Correva l’anno 1985. Da quella domenica non mi sono più staccato, ne avrò viste più di un migliaio di partite”.
E poi c’è il ‘naufragar nel mar dei ricordi’. Tra quei giorni nei quali avresti voluto che il tempo non passasse mai e altri invece nei quali avresti voluto che scorresse molto più in fretta. C’è una data, in particolare, segnata in rosso nel calendario di Filippi, che quel giorno davvero avrebbe voluto bloccar le lancette… “19 febbraio 2006, Juve Stabia-Napoli 3-1 con autogol di Romito, Agnelli e Castaldo per noi, Calaiò per il Napoli. E’ stato un qualcosa che forse non si ripeterà più e mi piace custodirlo gelosamente tra i miei ricordi di vita più belli. Quel giorno l’orgoglio stabiese ha trionfato, una città intera ha vinto insieme, soffrendo mano nella mano. E’ stato un qualcosa che non si può nemmeno descrivere per noi. Di derby ne abbiamo giocati, ne giochiamo e ne giocheremo tanti per la forte presenza di squadre campane in tutte le categorie, ma io non so cosa darei per giocare di nuovo, un giorno, anche lontano non importa, una partita contro il Napoli. Per me la sfida vera è con loro e lo sarà sempre”.
Ne ha vissute tante di notti magiche, Filippi. Che poi, in realtà, se ami quello che fai, ogni giorno è magico. La magia dell’amore per il proprio lavoro, per i propri compaesani, per le proprie tradizioni. Riscopriamo il ‘piccolo’ per contrastare il ‘totale’. Contrastiamo una globalizzazione scelta da nessuno e che fagocita ciecamente tutto ciò che di nostro abbiamo. E per nostro intendo prima di tutto le nostre origini e le nostre usanze. Ci persuadono che imparare l’inglese sia la cosa più giusta da fare, facendo cadere nel dimenticatoio quelle tradizioni, quei dialetti che hanno scandito serenamente la vita dei nostri nonni e dei nostri avi. Onoriamo la loro memoria e portiamola ogni giorno con noi, non lasciamoci fagocitare.
“Noi stabiesi siamo persone forti, gente che non molla mai come recita anche il motto della nostra città. ‘Post fata resurgo’, ‘dopo la morte mi rialzo’. Noi ci rialziamo sempre: nell’onestà, nella solidarietà e nel lavoro. In cuor mio – racconta Filippi ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com – spero di tornare a vivere notti come quella del 2011 quando vincemmo la finale con l’Atletico Roma e andammo in Serie B. I festeggiamenti durarono un mese pieno, per il viale d’ingresso di Castellammare vennero realizzate gigantografie con i volti di giocatori e dirigenti”. Legame forte con la sua gente, con i suoi tifosi. Legame che va al di là dell’aspetto calcistico. Legame di sangue, di tradizioni, di cittadinanza. E non c’è niente di più vero nel mondo delle false apparenze. “Voglio ricordare, in tal senso, un altro episodio per me molto significativo. Nell’ottobre del 2016 è venuta a mancare mia madre e quattro giorni dopo, prima di una partita di cartello, i ragazzi della curva hanno esposto uno striscione di condoglianze che mi ha commosso e mi commuove tutt’ora rileggerlo. ‘Uniti al dolore della famiglia Filippi. Ciao mamma Ada’ e una sua foto. E’ stato un qualcosa di talmente significativo che veramente lo porterò sempre dentro di me”.
Il calcio, molto spesso, non ha né una logica né un equilibrio. E, forse, è proprio per questa sua peculiare declinazione ‘irrazionale’ che ogni giorno riesce in qualche modo ad ammaliarci. Riesce a sorprenderci, a colorare le nostre vite. Lasciamoci trasportare dal calcio. Raccontiamolo, parliamone, mettiamolo al centro dei nostri discorsi. Ma non come mero strumento di evasione dalla realtà (così non serve a niente). Vediamolo come strumento aggregante, come mezzo per riscoprire i valori (quelli veri!). Come mezzo per tornare a riscoprire le nostre origini, le nostre tradizioni, la nostra vera e autentica dimensione: quella di comunità sociale. Prendiamo da esempio la testimonianza di Filippi, prendiamo esempio Castellammare…