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Pontisola, Ferreira Pinto: “Fino a 19 anni lavoravo in fabbrica: mantenevo la famiglia. Smettere? Macché…”

“Io sono innamorato del calcio, per me è passione e gioia”. C’è un pallone che rotola e un rettangolo verde anche nei campi di serie D. Poco importa se ti chiami Ferreira Pinto e in carriera hai affrontato (e spesso messo in difficoltà) alcuni dei difensori più forti della storia del calcio. “Aspettavo qualche chiamata dai professionisti, ma non volevo rimanere più al Sud dopo l’esperienza di Lecce” – racconta l’esterno brasiliano ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com – “Ci sono rimasto malissimo per la mancata conferma. Ho scelto di tornare a Bergamo, città in cui ho deciso di vivere.  Mi allenavo tutti i giorni da solo, ma dopo un po’ ti viene voglia di confrontarti con dei compagni, fare qualche palleggio, qualche partitella. Allora due amici, Luca e Cristina, mi hanno presentato Andrea Quaglia, allenatore dei giovanissimi dell’Albinoleffe. Lui, a sua volta, mi ha presentato Bonasio, il presidente del Pontisola. A pelle abbiamo avuto subito un gran feeling e mi ha dato la possibilità di giocare per la sua squadra”.

L’umiltà non è mai mancata a Ferreira Pinto, che ha imparato da piccolissimo a rimboccarsi le maniche: “Fino ai quindici anni ho lavorato con mio padre in campagna, dai quindici ai diciotto in una fabbrica di mattoni. Non avevo proprio il tempo per dedicarmi al calcio e fino a 19 anni non avevo mai giocato in una squadra. Poi feci un provino e sono stato fortunato, perché il mio datore di lavoro mi diede il permesso di andare. Io non volevo, avevo paura di perdere il lavoro. Mi rassicurò che se anche fosse andata male avrei mantenuto il posto. Le preoccupazioni erano tante perché a 15 anni mio padre ci lasciò, la perdita più grande della mia vita. Rimasi con mia madre, mia sorella e mio fratello. Sono stati momenti terribili, ci ho messo un mese a rendermi conto di quello che era successo , poi ho reagito. Non si supera mai ma dovevo farlo per la mia famiglia, da quel momento mantenerli era compito mio”.

Nel 2000 lo Standard Liegi lo adocchia e gli da la prima chance, ma non era ancora il momento: “Arrivai in un periodo sbagliato da un punto di vista emotivo, ma anche economico. La mia famiglia era in Brasile e contava su di me. Quando mi trovai lì senza avere lo stretto necessario per vivere allora ne ho risentito psicologicamente. Ci fu poco tempo per studiare e nessuno che potesse aiutarmi. Allora decisi di tornare a casa: non avevo proprio la testa per giocare e dimostrare il mio valore. L’esperienza mi è servita in negativo e in positivo. Una volta tornato pensavo che ci fosse la possibilità di giocare nuovamente  per il mio vecchio club: non fu così. Tornai al lavoro normale, in fabbrica e in quel momento mi resi conto di chi era veramente amico e di chi lo era solo perché facevo il calciatore. Avevo perso la grande opportunità e mi ripromisi che se mai me ne fosse stata concessa un’altra non avrei fallito. Mi sono risollevato, come il mio idolo Ronaldo, il “fenomeno”. Il più forte di tutti. Se non avesse avuto i gravi infortuni che gli sono capitati chissà dove sarebbe arrivato”.

Nel 2001 nuova svolta: “La mia fortuna è stata Mezavilla, che ora gioca nell’Alessandria, che tornò in Brasile per fare dei documenti necessari per il suo trasferimento. Gli diedi un mio dvd e lui lo mostrò al direttore sportivo del Lanciano, un italiano brasiliano, Carlo Colacioppo. Mi chiamò e fissammo un provino che andò discretamente e da lì è nato tutto.  A Lanciano c’è la famiglia di mia moglie, che, assieme ai miei figli, è la cosa più importante che ho”. Squadra del cuore? L’Atalanta:”Ogni giocatore ha un sogno, arrivare al massimo e l’Italia all’epoca era il massimo e io ho, come si dice in questi casi, ‘toccato il cielo con un dito’. Avevo fatto la C, la B, mancava la A. Dopo un primo anno di adattamento sono entrato nel cuore dei tifosi bergamaschi e questa città è diventata casa mia. Certo, anche in altre città mi sono trovato bene, come a Perugia, fallimento a parte. Anche a Cesena, dove ho vissuto una delle mie migliori stagioni. Ma l’Atalanta è stata la ciliegina sulla torta. La miglior stagione è stata quella con Del Neri (2007-2008), dove ho fatto 38 partite su 38 dal primo minuto, unico giocatore di movimento. C’era anche Javier Zanetti, ma un paio le fece da subentrato. Una grande soddisfazione per me”.

In serie A ha fatto a “sportellate” con grandi avversari: “La lista è lunghissima. Potrei cominciare da Maldini, un modello per tutti, il difensore per eccellenza. Poi Cannavaro, Nesta, fino agli stranieri, come Lucio. Ho avuto la fortuna di vivere la serie A in uno dei suoi momenti migliori, dove le prime 3-4 squadre erano allo stesso livello”. Adesso la realtà è ben diversa, ma non manca l’entusiasmo a Ferreira Pinto, autore di otto gol in 24 presenze con il Pontisola, serie D: “Metto a disposizione la mia esperienza. Voglio far capire ai giovani quanti sacrifici ho dovuto fare per impormi. Guido il gruppo e faccio da esempio e questo mi da la forza e gli stimoli per continuare. Sono qui da due anni e questa stagione abbiamo raggiunto i play-off con due giornate di  anticipo e per una squadra come la nostra è motivo di grande soddisfazione. Poi mia moglie e miei figli si trovano benissimo, non potrei chiedere di più in questo momento”.

Poca voglia di smettere, ma quando arriverà quel momento che farai? “Penso di giocare ancora due o tre anni e dopo farò il corso da allenatore. Ho la possibilità di farlo, perché non provarci? Dopo si vedrà, mi piacerebbe allenare, anche fare da secondo. Vorrei rimanere in questo ambiente. Certo, non è detto che accada, non è semplice, ma è il mio desiderio”.