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Juric incontra Juric: dieci anni dopo quella maglia…

“La memoria di ogni uomo è la sua letteratura privata”, diceva Aldous Huxley. Ma ci sono luoghi, situazioni e persone, nel mio caso l’allenatore del Genoa Ivan Juric, che portano ad un punto di rottura tale dimensione, così da privata diventa pubblica. Raccontare e condividere, ma anche conoscere e scoprire, per non perdere il contatto con le proprie radici, con la propria storia o, appunto, con la memoria. Ed è stata proprio questa voglia di conoscere più di quanto non sapessi sul mio cognome e sulle mie origini, la vera motivazione che mi ha spinto a chiedere al Genoa e a Ivan Juric di poterlo incontrare. Una chiacchierata telefonica non mi sarebbe bastata e certo non mi avrebbe trasmesso quelle sensazioni che solo la conoscenza personale può far nascere. Dovevo stringergli la mano, dovevo raccontargli chi ero e perché mi chiamassi così e l’unico modo era andare a Genova.

Tutto questo perché, quasi dieci anni fa, non gli avevo dato troppe spiegazioni. Lui era il cervello del centrocampo del Genoa di Gasperini, io uno studente in pieno fanatismo da ‘football addicted’ in cerca di connessioni reali tra il calcio di serie A e la partita di calcetto del mercoledì sera. I vari social network di oggi non esistevano, e quei pochi, non erano così diffusi. Ma la voglia di possedere la maglia del primo calciatore con il mio stesso cognome era diventata una ragione di vita. Presi coraggio e scrissi una lettera al Genoa Calcio. Semplice, diretta e anche un po’ sfrontata. “Caro Ivan sono un tuo grande fan e mi chiamo come te. Mi manderesti una tua maglietta autografata? Non c’era molto da dire. Avevo iniziato a seguirlo grazie al cognome in comune e perché in campo esprimeva molto la mia visione del calcio, fatta di cuore, lavoro e sudore. Ma le speranze di ricevere una risposta non erano molte. “Ti pare che un calciatore di Serie A trovi il tempo per una cosa così?”, mi chiedevo. Forse allora ancora non avevo capito bene che tipo di persona speciale (lui) fosse. Sette giorni dopo mi arriva un pacco a casa. Mittente? Ivan Juric, con indirizzo e numero di cellulare. Non il Genoa o qualche addetto alla comunicazione. No, lui in persona. Dentro? Ovviamente la sua maglietta autografata. Il sogno si era avverato. Gli mandai anche un sms al quale lui gentilmente rispose. Poi da lì più nulla.

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Gli anni passano, io provo a realizzare un altro sogno, quello di diventare giornalista, mentre lui intraprende la carriera di allenatore. Prima come vice di Gasperini, poi da solo. Mantova, Crotone e infine Genova. Forse il destino aveva deciso che le nostre vite dovessero incrociarsi nuovamente. Non è più tempo delle lettere di un ragazzo appassionato, devo sfruttare la mia “posizione”. La richiesta di un’intervista va a buon fine. “Marco, il mister ha accettato. Vieni su a Genova, vuole incontrarti”. Mai una semplice mail mi aveva reso così felice. Parto, prendo il treno e arrivo a Pegli, il centro sportivo del Genoa. La vista di Villa Lomellini Rostan, una residenza nobiliare cinquecentesca, può lasciare a bocca aperta chiunque ma, in quel momento, nella mia testa non c’è spazio per l’arte. Ho solo voglia di conoscere Ivan Juric. L’emozione è tanta e l’attesa logora i miei nervi. Finalmente mi accompagnano nel suo ufficio, chiedo permesso e lui mi accoglie quasi mi conoscesse da tempo: “Ciao Marco, vieni, entra pure”. Il pc è acceso, collegato ad un televisore. Sta riguardando Crotone-Genoa, osservando i movimenti del suo attacco. Riconosco Pavoletti, ma non ho nemmeno il tempo di chiedere su cosa fosse concentrato, che spegne le immagini. Sicuramente l’ho disturbato, ma non me lo fa notare. Anzi, prova subito a mettermi a mio agio. Non credo di aver nascosto bene l’emozione. “Fumi?”, mi chiede. “Si mister, ma non mi sembra il caso”. “Non ti preoccupare, vai, accenditi una sigaretta”. Gentilmente declino e gli stringo la mano. E’ un tipo diretto. Ti guarda negli occhi, vuole subito capire chi sei. “Ma sei croato?”, mi chiede prima che io possa dire qualcosa. “Io no mister, ma mio nonno si. Sa perché…..” e subito mi interrompe. “Di dov’era?”. “Di Zagabria come lei, ma poi venne in Italia subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ma non so molto altro. Dopo aver sposato mia nonna e aver avuto mio padre partì nuovamente e si fermò in Venezuela. Si chiamava Ivan Juric anche lui”. Si scurisce in volto. Sembra quasi sapere tutto di mio nonno, ma rimane in silenzio qualche secondo. Perché non dice nulla, mi chiedo? Cosa sa che non vuole dirmi? Avrei mille domande, ma non insisto. Rispetto il suo silenzio, che mi ha detto più di tante parole. Il pensiero non può non esser andato a guerre antiche e recenti nella sua terra. Del resto io non posso immaginare cosa sia stata la guerra in Croazia, perché non ho avuto un nonno che me l’abbia raccontata.

Virginia Wolf disse: “Ognuno ha il proprio passato chiuso dentro di sé, come le pagine di un libro imparato a memoria e di cui gli amici possono solo leggere il titolo”. Forse lui sa più del titolo, forse sa tutta la storia. Ma non chiedo. In fondo il futuro è quello che conta.

P.S. Ovviamente l’intervista non è finita qui. Tanti gli argomenti trattati: Pavoletti, il suo Genoa capolista, la musica e molto altro. Nei prossimi giorni sempre su GianlucaDiMarzio.com. E allo stesso modo non ho dimenticato la domanda più importante: “Mister, si ricorda della lettera?” “Sono sincero Marco, non mi ricordo”, mi ha risposto. Lo immaginavo e forse non desideravo altro. Diretto, schietto e sincero. Perché Ivan Juric è così, dice sempre quello che pensa.