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Storia, rivalità e teste quadre: cosa vuol dire essere reggiano 

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A Parma li chiamano Teste Quadre, un po’ per la testardaggine, un po’ perché, a guardarli bene, “molti di loro le hanno così”. Teste quadre, spigolose. Questione di forme, ma anche di mentalità. Loro – i reggiani – preferiscono parlare di determinazione: “capacità di non mollare mai”. Forse la verità è che determinazione e testardaggine, in fondo, non sono nemmeno così lontane. Per carità, poi, saranno anche “quadri”, ma non parmigiani: “troppo diversi quelli”. Cappelletti in brodo e tortelli verdi, basterebbe questo per capire. In comune solo il parmigiano reggiano. O forse neppure: “È nato a Bibbiano, che è qui in provincia. È cosa nostra anche quello. Loro hanno il prosciutto”. Il reggiano è più semplice, più “paesano”: piedi per terra. A Parma vivono in un altro modo. Per amare Reggio basta poco: un caffè in Piazza Fontanesi, fra gli alberi e le panchine in legno, i bimbi che si divertono, qualche anziano che discute. L’essenza della città è tutta lì, sentirsi a casa anche quando non lo sei.


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NEL RICORDO DI KOBE

Bastarono un paio d’anni anche a Kobe, celebrato al minuto 24 di Reggiana-Sudtirol, al Mapei: a Reggio – più precisamente a Montecavolo, tre le prime colline fuori dalla città – visse fra ‘89 e ‘91. “Qui poteva fare le cose semplici, che per un reggiano vuol dire uscire con gli amici, mangiar fuori, stare in trattoria, apprezzare i nostri valori: la famiglia, la cucina, il basket in un campetto – ricorda Alessandro Dalla Salda, ex amministratore delegato di Pallacanestro Reggiana, che conobbe personalmente Kobe nel ’97 – tutte cose che lui qui fece liberamente da piccolo, ma che poi ha apprezzato molto di più quando non poteva più fare”. Kobe era pazzo di Reggio. I giri in bicicletta fra i vicoli, i gelati in piazza grande. “Parlava un italiano perfetto e ti trasmetteva il piacere di essere italiano, di fare le cose che piacciono a noi”. Nelle prossime settimane la piazzetta rivalutata di fianco al Palabigi, casa della Pallacanestro Reggiana, avrà il suo nome. Al centro qualche fiore, un paio di foto e uno striscione: “Ciao Kobe, reggiano per sempre”. Piazza Kobe Bryant sarà nel cuore di Reggio, a cinque minuti da Piazza Prampolini, fulcro vero della città: con la Cattedrale, il Battistero, la statua del Crostolo e…la sua gente. 


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ANCELOTTI, STORIA E DELIRIO 

Già, la gente. Il reggiano tipo è semplice, difficilmente sopra le righe, pragmatico. Non è un caso che Carlo Ancelotti sia nato da quelle parti. Non a Reggio, ma a Reggiolo, poco distante. Fa strano associare a Reggio uno che ha spiccato il volo a Parma, ma tutti i tratti della personalità di Carletto riconducono alla sua reggianità. “Carlo è l’espressione più vera di quanto un reggiano possa dare a livello di vita e di lavoro”, parola di Giorgio Cimurri, legato allo sport e a Reggio da una tradizione familiare quasi secolare: suo padre Giannetto aprì in Via Mazzini – due passi dal Parco del Popolo – un negozietto di articoli sportivi, punto di riferimento per gli appassionati di qualunque sport. Il debutto dell’Ancelotti allenatore avvenne proprio sulla panchina della Reggiana, stagione ’95/‘96. Quarto posto in B e promozione in Serie A: l’inizio di tutto.


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A Reggio se lo ricordano bene quell’anno. Il primo con il nuovo stadio, il vecchio Giglio (l’attuale Mapei), paradossalmente inaugurato al termine della stagione precedente, a retrocessione già avvenuta: nessuna società in Italia aveva mai avuto uno stadio di proprietà e Ancelotti alimentò quell’entusiasmo coi risultati. Ma la festa di tre anni prima è un’altra cosa. Troppo speciale. Una scalata partita nel ’88 dalla C, culminata nel maggio ‘93 con la prima promozione nella Seria A a girone unico della storia della Reggiana. In panchina Pippo Marchioro, un monumento a Reggio. Nelle strade il delirio: “La città fu invasa, festeggiava chiunque. In Piazza della Vittoria, davanti al teatro municipale, nelle fontane, piene di ragazzi e anche di adulti. Tutti giravamo con la maglia della Reggiana. L’entusiasmo di quei giorni è rimasto nel cuore di ogni reggiano”. Dello stadio che fece da sfondo a quella cavalcata, il Mirabello (in foto), non è avanzato quasi niente: solo quattromila posti dei ventimila originari. Resta la tribuna principale, sempre lì, a ridosso della Via Emilia…un pezzo di storia che vive ancora in mezzo alla città. 


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FIDUCIA E RIVALSA, OBIETTIVO SERIE B 

Altri tempi, altre storie. Ma il calcio a Reggio non è mai morto, nonostante la B manchi da più di vent’anni. Struttura societaria forte, stadio-gioiellino (il Mapei) e un seguito clamoroso per la categoria: la nuova Reggiana, ripartita dalla Serie D nel 2018 e ripescata in C proprio nell’anno del centenario (2019), è questa qui. “Dopo il fallimento c’è tanta voglia di rivalsa… il coinvolgimento della piazza verso la squadra è straordinario. È una cosa che si percepisce anche per strada, in mezzo alla gente, quando cammini in centro…e poi allo stadio”. C’è una parola che Doriano Tosi, direttore sportivo della Reggiana Calcio, ripete di continuo: “fiducia”, i tifosi credono nella società. “Oggi abbiamo una società credibile, per questo la gente ci segue. Poi è chiaro che quando la piazza condivide le scelte del club allora sosterrà anche la squadra…e così tutto diventa più facile”.


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Risultato? Secondo posto solitario nel girone B di Serie C, meno cinque dalla prima e più quattro sulla seconda (questa domenica scontro diretto da brividi al Cabassi, contro il Carpi). E pensare che la Serie C non dovevano neppure farla: “È iniziato tutto il 12 luglio, quando una sesta squadra non si è iscritta al campionato…”. Dopo il ripescaggio, parola di Tosi, l’obiettivo è la B. Lui dice massimo entro tre anni. I tifosi hanno inevitabilmente un po’ di fretta in più. C’è voglia di B, c’è voglia di festa: come quel pomeriggio del maggio ‘93, tra le fontane in Piazza Vittoria. E allora…”dai c’andom Reggiana!”.

A cura di Lorenzo Del Papa (montaggio video: Matteo Giavazzoli)