Analisi di una rinascita: il Liverpool e quel tabù Premier da sfatare
La leadership perduta, i successi in Europa dietro alla crisi, la ripartenza all’americana: così Liverpool torna a sognare in Premier League
“Vogliamo fare la storia”, ha dichiarato ieri Jurgen Klopp al termine di Liverpool-Newcastle. Non per modo di dire: in una manciata di giorni, con il Manchester City ko a sorpresa per due volte, i Reds si sono ritrovati al saldo comando di una Premier League finora sempre sfuggita. 51 punti, +6 sul Tottenham, +7 sui Citizens quando siamo esattamente al giro di boa.
Premessa: il ‘titolo’ di campione d’inverno ha una valenza relativa anche e soprattutto in Inghilterra. Da quando nel 1992 la Premier ha sostituito la First Division, in ben 12 occasioni su 26 chi era in testa alla fine del girone di andata non si è poi confermato a maggio. Due di quelle 12 portano la firma del Liverpool (1996 e 1998, chiudendo poi quarto e secondo, sempre alle spalle dello United), che non ha mai vinto il titolo nazionale da quando si chiama Premier League. Uno smacco, per quella che ai tempi dell’ultimo scudetto (il diciottesimo, 1989/1990) era da considerarsi la regina d’Inghilterra sia per dominio sul campo (la seconda squadra più titolata all’epoca era l’Arsenal con nove campionati) che per influenza sulla cultura di massa. Sin dai tempi dei Beatles: dal video di Help alla copertina di Sgt. Pepper, gli omaggi dei Fab Four ai Reds sono svariati (nonostante Paul McCartney abbia ammesso di tifare anche Everton…).
Cosa si è rotto negli ultimi vent’anni? Sicuramente, tra l’eccezionale era Ferguson nel Manchester United e l’impatto dei magnati stranieri nel calcio inglese a partire da Abramovich e il suo Chelsea, l’ascesa delle concorrenti è stata devastante e su più fronti. Nello sport come in qualsiasi altro settore, però, se la forza dominante perde la leadership deve quasi sempre fare mea culpa. E il Liverpool non fa eccezione: nel 1991 il nuovo presidente dei Reds diventa David Moores. Grande tifoso, ma senza le disponibilità finanziarie e la capacità di innovarsi delle altre big della Premier. L’addio nel medesimo anno di Kenny Dalglish, bandiera rossa da giocatore prima e da allenatore poi (ma player-manager tra 1985 e 1990), non è stato compensato da scelte tecniche e societarie all’altezza. Così il Liverpool si è a poco a poco ritrovato prigioniero del suo passato, proprio quando le formule vincenti del calcio (marketing, diritti tv) stavano cominciando a cambiare.
Dalla cinquina del 2001 (tre coppe di Lega, più Uefa e Supercoppa Uefa: era il Liverpool di Houllier e Owen) all’epica finale di Istanbul del 2005, i tifosi si sono comunque tolti grandissime soddisfazioni durante la presidenza Moores. I Reds però non sono i più i dominatori di un tempo, specialmente da quando, nel 2007, il padrone di casa ha ceduto il club. “Lascio il club in ottime mani”, disse Moores, da tempo alla ricerca di investitori esterni. A rilevare il Liverpool furono gli americani Tim Hicks e George Gillett: promisero lo stadio nuovo, il rispetto della tradizione Red, una gestione solida. Tre anni più tardi avrebbero lasciato la società in ginocchio, tra speculazioni, debiti (per 270 milioni) e iniziative paralizzate dalla reciproca diversità di vedute: “Built by Shanks (riferimento a Billy Shankly, leggendario allenatore dei Reds, ndr), broke by Yanks”, ha sentenziato eloquente uno striscione della curva di Anfield.
Eppure, da un altro ‘Yankee’ Liverpool è ripartita. Stavolta con il piede giusto: Tom Werner, produttore televisivo di New York, prende le redini della società nel 2010 e porta i Reds nel terzo millennio. Investimenti nel brand, nei social network (dove il Liverpool, numeri alla mano, è ancora in ritardo rispetto a United, Chelsea e Arsenal) e nelle infrastrutture (la nuova Main Stand di Anfield è del 2016) hanno creato le condizioni per una rinascita sul piano sportivo. Di Werner si fidano pure le bandiere, con Dalglish che torna in panchina per una stagione (2011/2012).
Il Liverpool non è mai andato così vicino alla Premier League come due anni più tardi, quando capitan Gerrard, alla 36^ giornata contro il Chelsea, è letteralmente inciampato sul traguardo. Come per maledizione, arriva il secondo posto più amaro. Ma la strada è quella giusta e la piazza torna attraente per un allenatore all’ultimo grido. Dal 2015, con Klopp si apre un ciclo: Salah-Mané-Firmino, la finale di Champions (ma chiedetelo ai tifosi dei Reds, se non preferiscono il campionato…), oggi un girone d’andata chiuso senza sconfitte. Per il Liverpool, è la prima volta nella storia della Premier. L’avversario da battere alla distanza è il City di Guardiola campione in carica. Jurgen stravede per Pep ma è anche la sua bestia nera (8 vittorie in 15 precedenti contro l’ex Barça: nessuno come lui). Segnali, di un vento che cambia o che sta per cambiare. Ma non diciamolo ad alta voce: Klopp lo sa bene, dalle parti di Anfield la storia è ancora tutta da (ri)scrivere.