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Il Bari di Conte, quello di Ventura “Mr. Libidine”, i continui viaggi: Mauro Boerchio, portiere giramondo alla scoperta della Mongolia

“Sì, viaggiare, evitando anche le buche più dure”: colonna sonora perfetta, sembra cucita addosso alla storia di Mauro Boerchio, portiere giramondo. Cuffiette nelle orecchie, un biglietto aereo per amico e si parte. Ultima destinazione? La Mongolia, paese lontano, soprattutto nella cultura: “Molte cose sono differenti, ma è tutta questione di abitudine”. Anche nel calcio: sport ancora in via di sviluppo da quelle parti: “C’è molta ignoranza intorno al movimento, ma le cose stanno migliorando”. Già, merito della possibilità di disputare la Champions League asiatica, già dal prossimo anno. Posti limitati però, ci arriva solo la prima in classifica (su un totale di 10 squadre). E la più seria candidata alla vittoria finale sembra proprio l’Ulaanbaatar City FC, la squadra di Mauro Boerchio, alla sua prima partecipazione. Da non confondere però con le altre due squadre di Ulaanbaatar, capitale della Mongolia. Ieri la prima giornata di campionato, prima partita? Derby tra l’Ulaanbaatar City FC e Ulaanbaatar FC vinto dalla prima per 3-1. Stop però, facciamo un passo indietro. Riavvolgiamo il nastro: come ci è arrivato un portiere nato in provincia di Pavia fino in Mongolia? “Non ho mai avuto problemi a viaggiare, mi piace scoprire culture diverse”.

Prima tappa? “Il Renate è stato il mio trampolino di lancio, era una grande famiglia, mi sono trovato benissimo con tutti”. Partenza a razzo, la proposta giusta era dietro l’angolo: Bari chiama, Boerchio risponde: “E’ stata un’esperienza magnifica che mi porterò nel cuore per tutta la vita. Sono arrivato a Bari nell’anno della promozione in A, quindi l’entusiasmo era alle stelle. I tifosi ancora mi scrivono…”. Merito di un gruppo compatto e di un allenatore speciale: “Conte era maniacale in ogni cosa – Racconta Mauro Boerchio in esclusiva per Gianlucadimarzio.com – Ci massacrava sul campo e nella vita privata. Per esempio avevamo degli orari prestabiliti per tornare a casa in certi giorni della settimana che non potevamo sforare. Era molto meticoloso anche sulla dieta da seguire. Una cosa però è certa: già allora si vedeva che aveva la stoffa del predestinato”. Un duro dal cuore tenero Conte: “Non era sempre così severo però, per esempio prima di ogni partita ci portava al cinema a vedere un film a nostra scelta. Era un modo per rilassarci e fare gruppo. Quando abbiamo avuto la certezza matematica della promozione ci ha anche lasciato qualche giorno libero. Quando siamo tornati però ha ripreso a martellarci perché voleva finire il campionato nel migliore dei modi”.

Promozione in Serie A, poi i prestiti al Lecco e al Pro Sesto, infine il ritorno a Bari. Niente più Conte in panchina, al suo posto Giampiero Ventura: “Un malato di tattica. E’ simile a Conte sotto alcuni punti di vista, è un martello, non accetta cali di tensione. E’ anche una persona simpatica, nell’ambiente lo chiamavano “Mr. libidine”. Squadra tosta quel Bari, in rosa anche Andrea Raggi, fresco di qualificazione in semifinale di Champions League, anche se “non mi sarei mai aspettato potesse arrivare a certi livelli”. Boerchio non pretendeva tanto, ma dopo Bari forse si aspettava una chiamata tra i professionisti, invece “il mio agente del tempo fece dei casini e mi ritrovai senza squadra. Sono stato costretto a scendere in Serie D”. Un altro mondo: “Ero abituato ad essere coccolato, lì invece era già tanto se a bordo campo si riusciva a trovare un medico”.

Delusione cocente, tanto da convincere Mauro a partire. Lontano. Forse anche di più di quanto avesse mai immaginato. Biglietto areo pronto, zaino in spalla e un carico di speranze nella valigia: “Quando mi hanno proposto di trasferirmi nell’Amicale, a Port Vila (capitale delle isole Vanuatu in Oceania) ho accettato al volo. Lì ho trovato un calcio molto fisico e con pochissima tattica. Il posto però era un paradiso: mare, sabbia, sole. Mi affacciavo dalla finestra e vedevo l’acqua cristallina. Lì ho vinto due campionati e disputato una finale di Champions League oceanica, persa con l’Auckland City, squadra neozelandese”. Dal mare di Port Vila a quello di Malta: “Il calcio lì è molto simile al nostro, anche perché è pieno di italiani e si parla quasi solamente la nostra lingua”. Esperienza breve però, appena qualche mese. Poi l’ultima chiamata, quella che l’ha catapultato in Mongolia: “Appena mi hanno proposto di trasferirmi ero già sicuro di andare, ho aspettato solo l’ok della mia fidanzata per partire”.

Un mondo nuovo, culture differenti. Un esempio? “Sono buddisti, hanno dei rituali particolari: venerano le piante e se c’è una montagna più alta delle altre arrivano fino in cima per pregare e chiedere delle benedizioni. E’ molto frequente vedere quei monaci che di solito appaiono solo nei film camminare per strada”. Tra un rito su una pianta e una visita a uno dei tanti tempi sparsi nel territorio si trova il tempo anche per mangiare qualcosa di tipico, peccato che “è il peggiore che abbia mai provato: mangiano quasi esclusivamente carne bollita di agnello e pecora. Una delle poche cose decenti che ho provato è una specie di calzone con all’interno una bistecca”. Se il cibo non è dei migliori altrettanto si può dire della cultura calcistica del paese: “Il calcio non è seguitissimo a dir la verità, lo sport più popolare qui è il wrestling. C’è molta ignoranza a riguardo perché non si sono mai confrontati con altri paesi. Da questa stagione però, con la novità della Champions asiatica, la curiosità intorno al movimento è cresciuta. Stanno crescendo anche a livello tattico: hanno portato anche allenatori stranieri per diffondere uno stile di gioco più europeo. Il calcio italiano? Seguono più Liga e Premier League, ma conoscono Juventus e Milan e tutti i giocatori della Nazionale”.

Stadi mezzi vuoti perché “fin qui mi è parso di capire che solo la nostra squadra abbia un seguito di tifosi”, le differenze con l’Europa si percepiscono anche all’interno degli spogliatoi: “Non fanno la doccia al campo, anche quando devono cambiarsi si nascondono, cercano di non farsi vedere. Forse per una forma di pudore”. E per quanto riguarda gli stranieri? “La mia squadra è multietnica: siamo due italiani, un giapponese, due russi e anche l’allenatore è spagnolo. Faticano a parlare l’inglese e questo è un limite per la comunicazione. Inizialmente erano molto schivi, ora pian piano si stanno aprendo: iniziano anche a fare i classici scherzi da spogliatoio. Sono abituati ad avere a che fare con gli stranieri anche se hanno una concezione diversa rispetto alle persone di colore. Non sono viste di buon occhio”. Sempre in viaggio Mauro Boerchio, continuamente. L’amore per l’Italia è sempre vivo, ma quando gli chiedono se vuole tornare risponde così: “Per adesso sto bene qui, all’Italia non ci penso. Mi piacerebbe giocare la Champions asiatica il prossimo anno”. Però? “Certo se chiamasse la Juventus…”