“Goodison sleepout”, la particolare raccolta fondi dell’Everton per i senzatetto
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Sarebbe errato, o quantomeno impreciso, definire la Premier League il miglior campionato del mondo tenendo in considerazione solo ed esclusivamente quanto accade sul terreno di gioco. È vero, è la patria del calcio, è già solo per questo motivo il suo fascino aumenta di valore, è la Lega che vanta i migliori allenatori e i migliori giocatori al mondo, un pubblico appassionato e un’organizzazione – trasformatasi negli anni in ricchezza – da far invidia a mezzo mondo, ma ci sono alcuni aspetti, che preferiamo chiamare “dettagli”, che ancor di più di tutto il resto ne aumentano l’appeal.
L’attenzione che viene prestata, non solo a mezzo stampa, ma con fatti concreti, ai tifosi e alle comunità che ogni singolo club rappresenta, che si tratti del ricco ovest di Londra o della fatiscente Burnley. Molti dei soldi guadagnati dalle società, vengono reinvestiti nelle associazioni (o foundation che dir si voglia) che nel quotidiano, e non con poche spese, aiutano le persone in difficoltà, che siano queste anziani, giovani, bambini, adulti o stranieri. Le problematiche e le aree di intervento, soprattutto in alcune specifiche aree del Regno Unito, sono molteplici: i senzatetto, che da quelle parti aumentano di anno in anno, le persone affette da disturbi mentali, i più vulnerabili che non possono garantirsi il pasto quotidiano, i più vecchi, spesso soli e costretti ad affrontare le difficoltà che la vecchiaia comporta.
Tutto questo è reso possibile da organizzazioni come Everton in The Community. L’associazione dell’Everton, da anni tra le migliori di tutto il paese, è una di quelle più attive sul campo. Sono decine le attività organizzate ogni anno per sensibilizzare il pubblico e i tifosi sulle difficoltà affrontate nel quotidiano dalle persone più povere.
Lo scorso weekend, ad esempio, abbiamo partecipato al Goodison Park Sleepout, un’attività che consisteva letteralmente nello dormire con un sacco pelo all’aperto, più precisamente sugli spalti di Goodison Park, stadio dell’Everton. L’operazione aveva l’obiettivo di raccogliere fondi per l’associazione che ogni giorno supporta i senzatetto della città di Liverpool, in particolare quelli dell’area vicino allo stadio, che è uno dei quartieri più poveri di tutto il paese. Ogni partecipante, pagando una fee d’ingresso, si impegnava a raccogliere fondi che venivano poi donati.
Una felpa pesante, qualche strato di lana, un sacco a pelo e un cuscino: era tutto quello che serviva per partecipare. Il club aveva organizzato nei minimi dettagli: i partecipanti venivano accolti in una delle aree hospitality dello stadio per bere una buona zuppa calda e ristorarsi, prima di affrontare la fredda notte all’aperto, mentre la mattina venivano distribuiti pasti caldi, nello stesso modo in cui migliaia di senzatetto ogni giorno provano a garantirsi il pasto quotidiano.
Non è stato confortevole, ma nemmeno doveva esserlo. L’obiettivo non era nemmeno star male, ma provare il disagio che migliaia di altre persone provano ogni giorno. Quasi 200 tifosi dell’Everton sono accorsi per parteciparvici, tra giovanissimi, anzini, e adulti di ogni background sociale. Tutti insieme, non tanto per la propria fede calcistica, quanto per supportare quella parte di club che, lontana dai riflettori mediatici, garantisce la sopravvivenza di migliaia di persone anno dopo anno.
Male alle ossa, freddo, mal di testa, scomodità, la paura iniziale di soffrire troppo e che non ne valesse la pena. Il timore che qualcosa andasse storto c’era, eppure il calore con il quale siamo stati accolti, le chiacchiere fatte coi tifosi, l’attenzione e l’organizzazione dello staff ci hanno fatto quasi sentire a casa. Quando le luci della stand sulla quale eravamo sistemati si sono accesi alle 6 di mattina, quasi volevamo restare. L’umiltà, la forza d’animo e il coraggio di certe persone valgono davvero più di qualsiasi big match vissuto in prima persona o di qualsiasi autografo. Della serie, Dio salvi la Regina, ma anche le associazioni come Everton in The Community.
A cura di Andrea Pettinello