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Champions, Buffon ci riprova. Dalle grida di Madrid all’urlo di Napoli

Sette mesi e 2.159 chilometri. Tempo e spazio che separano due notti. Quella di un addio mai consumato all’ultimo sogno e quella di un ritorno da “straniero” in Italia. Buffon uscirà dal tunnel del San Paolo e sentirà un urlo. “Il rumore dei nemici”, lo definirebbe un allenatore che mercoledì torna in Italia. Per Gigi sarà diverso. Quel boato sarà una carezza. L’urlo di Napoli, il ricordo di Madrid, la consapevolezza di essere ancora lì a inseguire quella maledetta coppa.

Se n’era andato gridando la sua rabbia, prima di un rigore che gli sembrò una sentenza. Il fischio di Oliver e quel cartellino rosso a impedirgli l’ultimo duello con un avversario che oggi, per i suoi vecchi tifosi, è un’icona. Sono passati 209 giorni e il suo mondo si è capovolto, ma è ancora lì. Ha quarant’anni, il numero 1 come un tatuaggio sulle spalle e sta per iniziare il suo quindicesimo assalto alla Champions.




Un’ossessione, dicono gli altri. “Un obiettivo”, dice lui. Prima di quella notte al Bernabeu disse che “da bambino avrebbe firmato per chiudere così”. Mentiva. O magari esorcizzava. Perché quella conferenza prima di Real-Juventus era già l’annuncio di una nuova sfida. “L’età è un aspetto che non conta. Se uno ha ancora rabbia e determinazione per essere il numero uno, deve continuare a giocare”. Senza quel contatto Benatia-Vazquez, forse sarebbe stato tutto diverso. Senza quel rigore, magari la sirena sarebbe suonata a Kiev. Il finale perfetto, ma la vita ha percorsi frastagliati.

Quella “rabbia e determinazione” sono ancora il suo motore. Non importa se ci sono altri colori da difendere. In porta si è soli e la sfida principale è sempre con se stessi. Solo così si arriva a 118 partite in Champions, solo così si trovano motivazioni dopo avere alzato 25 trofei in carriera. Parigi val bene una scommessa. Contro i propri limiti, contro chi voleva buttare la spugna al posto suo. E nell’anno in cui la squadra che ha lasciato fra lacrime e sorrisi sembra favorita, Gigi ritenta l’assalto.

Ricomincia dopo tre turni di squalifica. Dopo tre partite che ha visto solo “in differita nello spogliatoio”. Lo fa contro l’allenatore che lo ha lanciato e che a Manchester gli inflisse la prima grande delusione europea. Mbappé non andava ancora a scuola, Neymar giocava ancora per le strade di São Vicente. Chissà se si ricordano i due rigori parati a Seedorf e Kaladze o hanno solo in mente gli occhi di ghiaccio di Sheva. Non importa, conta solo il presente. Gigi conta su di loro per chiudere il cerchio. Ha imparato il francese velocemente e lo dimostra nella conferenza stampa del San Paolo, dove – altrettanto rapidamente – lo mette da parte. Perché questa è casa sua, anche se questo stadio non è mai stato amico. “Sappiamo che dobbiamo vincere, ma l’importante è anzitutto non perdere perché poi ci sono ancora le sfide con Liverpool e Stella Rossa”. Lo dice con un entusiasmo e un’attesa per la sfida ancora fanciullesca. Una parte di lui è ancora quel bambino che avrebbe pensato a tutto tranne che a mettere una firma per smettere di giocare. Neanche al Bernabeu, statene sicuri.

Ne ha messa un’altra quest’estate per continuare a provare certe emozioni. Per riascoltare quella musichetta, elisir di giovinezza.

“I quarant’anni sono quell’età in cui ci si sente finalmente giovani. Ma è troppo tardi”, diceva Pablo Picasso, bugiardo e pittore insuperabile. Uno che rimase ragazzo fino a 91 anni. Mentiva, un po’ come Gigi in quella conferenza a Madrid.

Guanti da allacciare, occhi chiusi per cercare la concentrazione e la speranza di vedere la partita da lontano.

È così da sempre per Gigi, chissà per quanto tempo lo sarà ancora.

Bentornato Gigi, comunque vada il tuo assalto al cielo.