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Calciatori e depressione, un rigore che non si deve aver paura di tirare

Dennis Hoins, calciatore tedesco di 27 anni, ha annunciato il suo ritiro a causa della depressione. Un’ammissione forte, tuttavia non la prima: la lista dei calciatori che hanno affrontato questa malattia è lunga e da un po’ di anni a questa parte se ne sta incominciando a parlare

Dennis ha 27 anni e gioca – anzi, giocava – nel Lubecca, club che l’anno prossimo militerà nella terza divisione tedesca: ha annunciato da poco il ritiro, perché sta lottando contro la depressione. Alvaro, meno di due anni fa, ha detto di sentirsi “totalmente fuori dal mondo”, di non stare bene e di aver capito che tutto parte dalla testa, che è lei che controlla il corpo.

Andrés aveva appena vinto una Champions League, ma a 25 anni stava pensando di smettere con il calcio e una notte si era presentato a casa dei suoi genitori: non sto bene, voglio dormire qui. Danny – poco prima di andare a giocare un Mondiale con la sua nazionale – si è lasciato andare in una conferenza stampa a cuore aperto, in cui ha ripercorso i momenti più difficili: ha raccontato di essere stato in cura e di aver avuto bisogno di antidepressivi, ma alla fine quella battaglia l’ha vinta. André, invece, per un po’ di tempo si è vergognato persino di uscire di casa.

E Per, ha dichiarato che provava quasi sollievo quando veniva lasciato in panchina, perché così non avrebbe dovuto reprimere quel nodo che dallo stomaco avvolgeva ogni cellula del suo corpo, prima di scendere in campo. Gianluigi, all’apice della sua carriera, non riusciva nemmeno a guidare e più che tuffarsi per una parata, sembrava lasciarsi cadere: ha confessato di essere guarito guardando un quadro di Chagall. Robert, un suo collega, invece non ce l’ha fatta e la sua vita l’ha gettata sotto un treno in un freddo pomeriggio di novembre in Bassa Sassonia.

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"UN BRIVIDO LUCIDO E NERO"

Storie di calciatori, storie di uomini, storie di depressione. E storie di un tabù che per fortuna, pian piano, inizia ad essere sfatato: perché alla depressione viene spesso associato il buio, ma i suoi effetti possono essere accecanti. Esistono studi, ricerche scientifiche e pareri autorevoli che affrontano il legame tra depressione e atleti. “Quello che non mi fa addormentare […] è un brivido lucido e nero, come di seta, una scossa dal cuore alla pelle, un buio omega”, canta un gruppo italiano con un nome curioso (I Cani).

Cosa è quel brivido lucido e nero nella vita di un calciatore? Partendo dal presupposto che si parla di una malattia – sì, di una malattia: la depressione va chiamata col suo nome – multifattoriale e sistemica (che può originarsi cioè da molteplici fattori e può condizionare molteplici aspetti di una persona), nella vita di un calciatore non mancano potenziali terreni fertili dove questo fiore fragile e potente allo stesso tempo riesce a sbocciare. A partire dallo stile della vita stessa, del calciatore: la possibilità di fare i conti con disturbi del sonno in presenza di ritmi elevati (ad esempio nei periodi più intensi delle stagioni), il dolore cronico che può derivare dagli infortuni, il rigore cui essi sono sottoposti. Si tratta di fattori che esulano dall’aspetto prettamente psicologico, ma che possono concorrere a “scavare la buca”, quantomeno in superficie.

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LA DEPRESSIONE "DA SUCCESSO"

Esiste poi un tipo di depressione – ancora non classificata ufficialmente nei manuali – che gli addetti ai lavori chiamano depressione “da successo”. Bisogna però andare oltre questa definizione e capire alcuni meccanismi che possono scattare nella mente di un atleta. Qualunque sia il livello raggiunto da un professionista, per ottenere questo status egli ha dovuto compiere dei sacrifici, utilizzare molte energie. E se le avesse finite tutte? Aver centrato l’obiettivo, essere arrivato in cima, può paradossalmente essere il momento in cui tutto si sgonfia: per ritornare a camminare servirebbe tornare a desiderare qualcosa, porsi un altro obiettivo.

Ma se mancano le forze, come raggiungerlo? Ecco perché, spesso, un desiderio appagato alla fine risulta somigliare più all’infelicità, che alla felicità. Andrés Iniesta aveva appena vinto un Champions League segnando il gol decisivo in semifinale, quando la morte di Dani Jarque lo ha fatto sprofondare in un pozzo di cui non intravedeva l’uscita. Gianluigi Buffon era reduce da due anni e due scudetti con la Juventus, quando si è accorto che qualcosa lo stava divorando; Alvaro Morata aveva vinto già tutto, quando ha affrontato la sua crisi a Londra. Danny Rose era nel bel mezzo della stagione che lo avrebbe portato ai Mondiali 2018, quando si è affidato alla terapia. E così via.

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ASPETTATIVE E PRESTAZIONE

C’è poi la questione relativa alle aspettative, agli standard da mantenere, alle prestazioni: è quasi normale identificare il calciatore con la sua prestazione. Ma questa può venire a mancare per diversi motivi e quando ciò accade, è probabile che il calciatore avverta un profondo senso di fallimento. È giusto associare il termine fallimento a un’annata storta o a un buon numero di partite giocate male, quando molte persone sono costrette ad affrontare problemi di ben altra natura? Chiederselo è lecito, ma quando si parla di “calciatori vs persone normali”, si commette un errore di fondo, si crea una dicotomia che svia il problema, lo aggira. Perché la normalità dei calciatori – e in genere dei divi o dei personaggi famosi – è sì diversa da quella delle persone “comuni”. Ma resta la loro normalità: fatta di asticelle da superare, di un mondo da non deludere. Fino a quando, da quel mondo, si viene sopraffatti.

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ROBERT ENKE E DENNIS HOINS

Sensibilizzare l’opinione pubblica rispetto ai disturbi mentali nello sport. È lo scopo della Fondazione Robert Enke, che prende il nome dal portiere  che si tolse la vita il 10 novembre 2009. Fu una morte che sconvolse il calcio tedesco, che fino a quel momento aveva ignorato il problema. Anche perché lo stesso Robert non era riuscito ad aprirsi e a parlarne: con ogni probabilità sarebbe stato il portiere che avrebbe difeso i pali della Die Mannschaft ai Mondiali del 2010, ma l’insicurezza, il malessere, il retaggio di certe esperienze fallimentari e alcune dure prove che la vita gli aveva messo di fronte, ebbero la meglio su di lui.

È anche grazie a questa fondazione – dove lavora Teresa, la moglie di Robert – che Dennis Hoins ha capito che era arrivato il momento di fermarsi. Per lui i palcoscenici non si chiamavano Champions League, Mondiali, Bundesliga, Serie A, eccetera. Il rettangolo verde, però, può tradirti sia quando luccica di stelle, sia quando solleva la polvere delle serie minori. Enke stava lavorando – con il suo amico scrittore Ronald Reng – a una biografia. “Finita la sua carriera da calciatore, sarebbe stato capace di parlare della sua malattia”, ha detto Reng. Purtroppo non ce l’ha fatta, ma oggi le cose stanno cambiando: Dennis, Andrés, Alvaro, André, Danny, Gianluigi. Storie di calciatori? No, storie di uomini. Uomini o donne, che anche se non rincorrono o tentano di fermare un pallone, aprendosi, parlandone e chiedendo aiuto possono trovare l’empatia, la comprensione e le cure per trasformare quel brivido nero in un caloroso abbraccio di colori.