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Passeggiando con Zaccheroni: “Io e il pallone, partiti da uno schiaffo”

Dalla sua foto su whatsapp s’intravede il mare. Quello di Cesenatico e quello con l’accento. “È lo stabilimento di mio figlio: Marè. Adesso ci sono le dune che proteggono dalle mareggiate. Per chi fa il suo lavoro non è stato un anno semplice. Ho passato le mie giornate lì, non hanno avuto neanche un caso. Sono stati bravi a tenere le distanze”. 


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Alberto Zaccheroni scruta l’orizzonte e cammina. Ogni giorno, il tempo di una partita. “Quando allenavo non avevo mai il tempo di farlo”. Il distanziamento da una panchina è una scelta che ha maturato nel tempo. 

Chissà quante volte ci pensa nei suoi 90 minuti quotidiani per le strade della città in cui è cresciuto, ma il pallone è troppo al centro dei suoi pensieri per definirlo ex allenatore. “Sono ancora curioso e finché sarà così, sarò sempre allenatore. Se potessi avere a che fare solo con i calciatori, tornerei subito, le chiamate non mancano. Arrivano a me, perché non ho mai avuto un agente. Non ho però la pazienza di sopportare tutte le situazioni extra, quelle fuori dall’Italia spogliatoio o dal campo".


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"Amo adattarmi ai giocatori che ho. A volte sarà sembrato strano perché ho messo qualcuno in un ruolo insolito, ma l’ho sempre fatto su misura del giocatore, non per integralismo tattico o per altri motivi. L’allenatore per me deve guardare chi ha e scegliere il sistema migliore per il contesto”.

Un po’ come fa un sarto, ma questo si sa è paragone scivoloso. Berlusconi lo esonerò nel 2001, dopo averlo accusato qualche settimana  prima – in un’intervista- di non saper lavorare la tela nonostante fosse di ottima fattura. Quello è un capitolo chiuso e un cassetto che a 67 anni Zac non riapre più. Meglio osservare il buon senso di Pioli e un Milan che ha trovato la quadra prima degli altri. Ora cominciamo a essere avanti col campionato e loro stanno sempre lì. Mica per caso”.

LO SCHIAFFO DI PAPÀ ADAMO: “NON VOLEVA GIOCASSI”


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Al telefono si sentono distintamente i passi e la passione di un uomo che s’illumina quando può parlare di calcio. Come mezzo secolo fa, anche di più. Come la prima volta.

“Ho messo piede su un campo sportivo che facevo già la terza media. Mio padre non voleva che giocassi a calcio. Dissi a mia madre  che sarei andato a giocare anziché fare due ore di educazione tecnica. Lei mi coprì, ma qualche dirigente al bar se la cantò. Tornai a casa e vidi mio padre Adamo sulla porta. Ricordo ancora quello schiaffone”.

HOTEL AMBROSIANA: “IO E MIO PADRE, PAZZI PER L’INTER. POI SMISI”

Andò a giocare a Bologna e si ammalò di tubercolosi. Dieci anni prima sarebbe morto, ma per fortuna – dieci anni dopo – esisteva una cura. Il calciatore Zaccheroni finì presto anche perché “c’era da guardare l’albergo di famiglia. Che mio padre chiamò Ambrosiana, il vecchio nome dell’Inter. Avrebbe voluto chiamarlo Internazionale, ma ne esisteva già uno a Cesenatico”.


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Lo aveva aperto Giorgio Ghezzi, cittadino di Cesenatico e storico portiere nerazzurro negli anni’50. Era soprannominato Kamikaze e fu uno degli idoli di papà Adamo che trasferì al piccolo Alberto l’amore per l’Inter: “Andavo a letto e pensavo solo nerazzurro. Conoscevo ogni cosa dell’Inter degli anni ‘60”. 

Poi all’improvviso, il bambino smise di essere tifoso. Accadde quando suo padre andò a vederlo giocare per la prima e unica volta. Lo stesso giorno in cui il Bologna di Savoldi, quello dei grandi, giocava contro l’Inter. Occasione ghiotta per Adamo e gli amici del bar, corsi in Emilia dalla Romagna. “E lì al Dall’Ara, quel giorno stesso, smisi di tifare Inter. Me ne accorsi perché non esultai al gol e festeggiai quello del Bologna”. 

Ribellione giovanile o aziendalismo. I venti del ‘68 e la rivolta giovanile, che nel calcio italiano si colorò di viola.Iniziai a tifare Fiorentina. Una volta nel campionato riserve mi toccò marcare Chiarugi. Una scheggia, dopo quella partita lo iniziarono a chiamare in prima squadra. E vinsero lo scudetto. Da cinquant’anni tifo sempre chi fa giocare i giovani. Metterli dà freschezza. Come quella Fiorentina.

GIOVENTÙ E QUALITÀ 

Più che tifare, oggi studia e stima ragazzi come Singo, “che mi ricorda Dani Alves, quando ha la palla”, e Ibañez, “un difensore che sa fare tutto nella difesa a 3 della Roma”


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Un marchio di fabbrica delle squadre di Zaccheroni. “Fosse per me, ne avrei messi 200 dietro ma serve ripartire. E io ho sempre voluto farlo con più qualità possibile e maggiore freschezza nei metri decisivi”. E guai se quei 3 più avanzati, tornavano a coprire. “Ah io minacciavo di sparare se li vedevo nella nostra metà campo”

“LO SCUDETTO COL MILAN PARTÌ DA UN’IDEA” 

Una fatica e una risorsa. Al Milan riuscì a farsi capire e apprezzare da Maldini e Costacurta che avevano fatto sollevamento trofei giocando sempre con la difesa a 4.

“La squadra che trovai nel ‘98 veniva da un decimo e da un undicesimo posto con Sacchi e Capello, non gente qualsiasi. Quel gruppo non aveva problemi di qualità ma di quantità. Normale perché molti erano a fine ciclo. C’erano giocatori di classe come Leonardo, Boban, Donadoni e Weah che avvertivano il logorio delle loro carriere. Lo stesso valeva per Costacurta e Maldini, che non poteva più fare le discese in fascia come a vent’anni. Il mio sistema nacque per tutelare la qualità di quella squadra. Ridurre gli spazi d’azione e garantire quantità. Io mi presentai con un’idea e la spiegai ai senatori. Maldini, Costacurta e Albertini mi ascoltarono e sei settimane prima di iniziare il campionato, mi dettero piena disponibilità a provare. A patto che dimostrassi di avere ragione. Iniziammo a vincere lo scudetto quel giorno. Un allenatore non può imporre. Deve condividere e vivere lo spogliatoio. Se i tuoi ragazzi non ti seguono, non hai speranze”.


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I rossoneri lo fecero e vinsero con la qualità di Boban e Leonardo avanzati nei tre davanti. Meno corse, più giocare. Al tempo in cui imperava il 4-4-2, Zac trovò il modo di liberare il talento delle mezze punte.

Quel Milan fu una continuazione dell’Udinese e del tridente Poggi-Amoroso-Bierhoff, “che con me ha fatto più gol che partite. Ma in pochi sanno che Amoroso, se non avesse avuto paura di colpire il pallone di testa, avrebbe fatto più gol sui cross di lui. Aveva un’esplosività fuori dal normale. E pensare che iniziò a giocare a Udine dopo l’infortunio di Clementi quando aveva già la valigia pronta per tornare in Brasile, nel ‘97. Poi ha dimostrato chi fosse. Io lo chiamavo Olivia, come quella di Popeye.


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ZAC IN JAPAN: “UN POPOLO UNICO”

Dal divano di Cesenatico segue la crescita di Yoshida alla Samp, suo ex difensore nel Giappone che vinse la Coppa d’Asia. “Di fatto esordì con me. E segnava pure”. Come ha fatto nell’ultima Tomiyasu, “ragazzo molto interessante che Sinisa ha svezzato da esterno prima di metterlo in mezzo. Scelta saggia perché i giapponesi hanno mille qualità ma difettano spesso in malizia. Quando allenavo la nazionale, prendemmo un gol perché la mia difesa si era fermata a bere su un calcio d’angolo. Davano per scontato che l’arbitro li avrebbe aspettati, come si fa nel loro campionato”. 


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Lealtà e leggerezza. Una virtù che a volte è stata un problema, ma che nella mente di Zaccheroni rievoca scene che vanno oltre un gol subito. “Ricordo quando mollammo tutti gli effetti personali in uno spogliatoio aperto. Intorno sfilavano 20mila persone che accorrevano per una nostra cerimonia. Neanche l’ombra di una chiave per chiudere la porta. Uscii per ultimo e pensai per un attimo con preoccupazione agli oggetti incustoditi. Un attimo solo, perché poi mi ricordai che ero in Giappone e lì quelle cose non succedono”

Un Paese entrato nel cuore di Zac. E viceversa. Trofei, risultati, ma non solo. Anni di empatia ancora tangibile con un popolo abituato “a vincere di squadra, senza individualismi”. 

“MAI AVUTO AGENTI, MAI CERCATO SPONDE”

Lì un uomo di Cesenatico, abituato a essere un cane sciolto, trovò il rispetto per il lavoro e per la solitudine. “Non ho mai cercato sponde nella stampa. A volte l’ho pagato, soprattutto nel mio periodo all’Inter”. Non vuole dirlo, ma ancora bruciano certi episodi. Come quando arrivò a chiamare in diretta Controcampo, il programma condotto da Piccinini, per difendersi da critiche infondate su una sua presunta esclusione di Vieri. Storie di spogliatoio spesso ingigantite o magari travisate, sentendo una campana sola. “Sono queste le cose che oggi farei fatica a gestire. Perché non credo di averne la pazienza”

NON ESCLUDERE UN RITORNO 

Eppure nella voce di Zac che cammina per Cesenatico si percepisce la voglia di rimettersi in gioco. Anche nei non detti. Perché l’ultima panchina in serie A fu quella di una Juve in costruzione e alle prese con una rivoluzione societaria. Sono passati dieci anni, nel frattempo ha girato il mondo per tornare al punto di partenza


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Nella città dove prese il primo schiaffone da papà Adamo per rincorrere un pallone. Mollò tutto, hotel Ambrosiana compreso, per inseguire i suoi sogni. A 67 anni ha meno pazienza e la stessa passione di mezzo secolo fa. Di mareggiate ne ha affrontate tante, in pochi gli hanno costruito dune intorno. Sempre a testa alta, testardo come solo certi romagnoli. Ha ancora un taccuino per gli appunti durante le partite. Per ora vicino al divano, domani chissà.