Kiev e i brividi di Maidan: quand’è difficile parlare di calcio
Guardi in alto e vedi i tetti innevati, i graffiti di allora. I fori della paura. Guardi avanti e c’è l’Hotel Ucraina, che durante quei giorni era tutt’altro che un albergo. Speranza, ultimo rifugio, un ospedale per curare i feriti o chi manifestava. I lumini sono ancora lì. Come le frasi sui muri, scritte lungo le pareti della statua dedicata al patrono della città, San Michele. Non conosciamo il significato, sono in cirillico, mistero e fiducia: magari hanno aiutato qualcuno durante la rivolta di febbraio, martoriato da un futuro incerto. Tutto iniziò nel novembre 2013 dopo la sospensione del DCFTA – l’accordo di associazione e libero scambio tra Ucraina e UE – da parte dell’ex presidente Janukovich. Finì il 23 febbraio 2014. Cento morti. Nel Donbass, tra l’altro, ancora si combatte, due Repubbliche si sono dichiarate indipendenti ma non sono state riconosciute dall’Ucraina (Luhansk e Doneck). La guerra continua.
CAMMINARE A MAIDAN
Guardi a destra e vedi un palazzo da ricostruire coperto da una catena che si spezza, e una scritta: “Freedom is our religion”. Sta tutto lì. Infine guardi a terra e capisci dove sei: Piazza Maidan (tradotto: indipendenza). Kiev. Cronache di una rivolta che fu. Camminare a Maidan mette i brividi, un po’ di inquietudine. Parlare di pallone non è semplice, raccontare la Lazio in Europa League passa in secondo piano. Non ti riesce, forse ti viene in mente soltanto in seguito, quando all’improvviso spunta il Lobanovskij Stadium di fianco alla strada principale, Hrushevskoho Street.
Sicuramente lì. Dove Astori, nel 2011, ha esordito in Nazionale. Come Valerij Lobanovskij (scomparso nel 2002), il “Colonnello” dai metodi speciali, all’avanguardia, diventato l’allenatore più importante dell’URSS, dell’Ucraina e della Dinamo Kiev. Scriveva gli schemi sulla lavagna con dei gessetti, stoico. Aveva una “salita della morte” descritta anche da Shevchenko, che gli dedicò il Pallone d’Oro del 2004. Pendenza? 18%. Chiunque non avesse vomitato sarebbe diventato titolare. Uno così ti lascia un segno. E infatti fuori lo stadio c’è una statua dedicata a lui. Nel centro sportivo della Dinamo Kiev, fuori città, quasi nascosto – raggiunto grazie ad un pulmino messo a disposizione per la stampa – la sua stanza è tutt’ora inaccessibile, si trova al quinto piano ed è la numero 501. In pochi possono entrare.
KIEV VISTA CHAMPIONS
Poi pensi a Maidan. E’ una costante di questa città. Quando cammini, quando visiti i luoghi più famosi, il pensiero torna sempre a quattro anni fa. A Piazza San Michele c’è una gigantografia che ritrae le foto delle vittime, in parte uccise dai cecchini. Accanto l’Hotel Ucraina uguale. Kiev non ha dimenticato, ha provato a ripartire anche grazie al calcio, preservando il ricordo. Quando ad Est è scoppiato il caos ha accolto i rivali dello Shakhtar, il Dnipro e l’Olimpik Donetsk. A giugno ospiterà la finale di Champions all’Olimpiyskiy, impianto da 70mila posti utilizzato dalla Dinamo per le gare d’Europa (per quelle di campionato usa il Lobanovskij). Giovedì la Lazio giocherà lì e ripartirà dal 2-2 dell’andata, Tsygankov&co non hanno mai perso in casa quest’anno. Serve l’impresa.
C’è anche legame agrodolce con l’Italia dietro l’Olimpico di Kiev: il cucchiaio di Pirlo all’Inghilterra fece piangere Joe Hart nel 2012, mentre i 4 schiaffi dalla Spagna ci costarono il titolo. In quell’Europeo, condiviso con la Polonia, gli occhi del mondo erano tutti sull’Ucraina. Come nel 2014. Non più curiosi, ma preoccupati. Scioccati. Al centro della piazza c’è un monumento che sintetizza tutto, segna la distanza di Kiev da tutte le altre città del pianeta. Roma, L’Avana, Vilnius, New York, Londra. E’ un mappamondo, a reggerlo ci sono 4 angeli. Quattro anni fa, a febbraio, per cinque giorni, il mondo ha nuovamente guardato all’Ucraina e la distanza si è azzerata. EuroMaidan. Anzi, MondoMaidan. Dove camminare mette ancora i brividi.