Koeman, da “eroe di Wembley” a “cattivo del film” in un anno e mezzo
Dopo l’esonero di Koeman, un bilancio del suo anno e mezzo alla guida del Barcellona
Koeman fuori. No, Koeman dentro. No, aspetta, vediamo se ne abbiamo un altro. No, non abbiamo nessuno: resta. No, se ne va. Questa volta sì. Ronald Koeman non è più l’allenatore del Barcellona. Potremmo dire che gli siano state fatali le due sconfitte con Real Madrid e Rayo Vallecano (ieri sera), ma la verità è che l’ha condannato la fiducia che il presidente Laporta non ha mai avuto in lui. “Cronaca di una morte annunciata”, titolavano su Sport alla mezzanotte di ieri, tirando fuori dagli archivi un articolo che, probabilmente, avevano pronto da qualche mese.
Il Cruijffwashing
Koeman l’aveva scelto Josep Maria Bartomeu nell’ultimo anno della sua sciagurata presidenza. Innanzitutto perché era un idolo del barcellonismo, in quanto autore del gol decisivo della prima Champions, quella vinta nel 1992 in finale contro la Samp. In secondo luogo, perché faceva parte dello storico Dream Team allenato da Johan Cruijff, quello che ha segnato stile e aspettative di gioco per gli anni a venire. Bartomeu, insomma, voleva un allenatore “cruijffista”, termine molto caro ad una grossa porzione di soci.
Ma le aspettative, com’era prevedibile, sono state disattese. Bartomeu prima e Laporta poi hanno scoperto che non bastava essere olandese ed avere una foto con Cruijff per essere cruijffista. Koeman, si sapeva, è un pragmatico. Quasi più calcisticamente italiano che olandese, se non ci concentriamo troppo sulla fase difensiva. La colpa di questo, anche se qualcuno ha voluto dipingerla così, non è sua, ma di chi ha voluto far passare per una scelta identitaria qualcosa che non lo era. “Cruijffwashing”, potremmo ribattezzarlo.
Non tutto è da buttare
Un’operazione di immagine, che però non ha fatto che danneggiare l’immagine del povero Rambo agli occhi dei tifosi. Povero, sì, perché alla fine il suo lavoro non è stato tutto da buttare come molti hanno sostenuto ultimamente.
Koeman è arrivato nel pieno di una transizione verso l’ignoto di una squadra che ha deciso di vivere il suo declino fino in fondo, senza avere un’idea concreta di come evitarlo. Alla luce di ciò, il fatto che abbia concluso la scorsa stagione vincendo una Copa del Rey e competendo fino alla fine per la Liga non è un risultato affatto scontato. Fra l’altro, anche valorizzando giovani e giocando molto bene per lunghi tratti della stagione, prima di sgonfiarsi proprio sul finale.
Intorno o interno?
Poi, è arrivato Laporta. Cruijff diceva spesso che il problema del Barcellona è “l’intorno”, tutto il vociare mediatico che mette costante pressione ad allenatore e calciatori. Koeman, però, è stato condannato innanzitutto dall’interno, da un presidente che ha sempre voluto mettere in chiaro che con lui non c’entrava niente e che ha reso estremamente mediatiche le ricerche periodiche di un sostituto, mai trovato fino ad oggi.
In questa stagione, schiacciato dalla pressione di essere considerato da tutti un “dead man walking”, inseguito dagli infortuni e alla guida di una rosa che ha perso anche le ultime stelle, Koeman non è andato bene (5 sconfitte, 5 vittorie, 3 pareggi). Sarebbe una cattiveria dire che l’esonero è meritato, ma è innegabilmente giusto.
Da “eroe” a “cattivo”
L’olandese non aveva più il timone della squadra e il Camp Nou tratta ormai “l’Eroe di Wembley” come il “Cattivo del film”. Curioso, visto che l’aveva proprio chiesto in una delle sue prime conferenze stampa di non essere trattato come “il cattivo del film”, visto che i giornali attribuivano a lui le scelte di dare il benservito a giocatori, come Suárez, che guadagnavano troppo per i conti disastrati del club.
Adesso la palla passa a Laporta. Per il numero uno del Barcellona è arrivato il momento della prima vera scelta della sua presidenza: il prossimo allenatore deve aprire un ciclo tecnico, o quantomeno di scelte assennate. Perché il Barça ha bisogno di nuovi eroi, non di altri cattivi.