Sognando la Serie A... "Elogi, esclusioni: il rapporto con gli allenat...
Close menu
Chiudi
Logo gdm
Logo gdm
logo
Ciao! Disabilita l'adblock per poter navigare correttamente e seguire tutte le novità di Gianluca Di Marzio
logo
Chiudi

Data: 28/07/2018 -

Sognando la Serie A... "Elogi, esclusioni: il rapporto con gli allenatori"

profile picture
profile picture
Sognando la Serie A è una rubrica sul mondo del calcio giovanile. Storie vissute (e scritte) in prima persona, tra ricordi, sogni e realtà.
Sognando la Serie A è una rubrica sul mondo del calcio giovanile. Storie vissute (e scritte) in prima persona, tra ricordi, sogni e realtà.

“Non pensare a metterci forza, pensa solo al movimento che poi la palla va da sola”.

Così il mio primo allenatore cercava di insegnarmi a calciare, io che quando avevo nove anni ero solo fisico, corsa e piedi quadrati.

Ecco, se c’è una cosa che nessun ragazzo che ha iniziato a giocare a calcio potrà mai scordare è sicuramente lui, il primo allenatore.

Io del mio ho conservato gli insegnamenti tecnici per tutta la “carriera”, io di lui ho conservato ogni smorfia.

Sarà che è la prima persona che ti dice come giocar bene il tuo sogno, sarà che più difficilmente la mente dei bambini conserva brutti ricordi, sarà che in quella fase è tutto più un divertimento, ma io del mio ho un gran bel ricordo.

Avere bravi allenatori e belle strutture fin da subito è una fortuna.

Quando si è piccoli purtroppo pochi capiscono quanto faccia la differenza avere una persona che ti prepari soprattutto tecnicamente per il calcio che verrà.

Ricordo che quando giocavo nella squadra del mio cuore rimasi incantato dagli allenamenti ed i percorsi che facevano i bambini di dieci-undici anni; spesso uscito dal campo mi fermavo un po’ a guardarli.

Pensavo a come sarei potuto diventare se fossi cresciuto anche io in quel modo. A livello giovanile ho avuto circa 7-8 allenatori purtroppo non tutti sono stati “quello giusto”.

Nel calcio ormai è cosa nota il fatto che per riuscire oltre a talento e alla testa serva anche fortuna, ma alla fine, che cos’è questa fortuna?

La fortuna a mio parere nel calcio è ritrovarsi nel posto giusto al momento giusto, e il posto giusto spesso coincide con l’allenatore, o quantomeno è direttamente proporzionale.

Il mio primo “posto giusto” è stato l’allenatore della categoria Giovanissimi, anche se in realtà purtroppo restò solo il primo anno.

Ci insegnava a giocare palla a terra in qualsiasi zona del campo, ricordo che spesso ci imponeva di non fare mai più di tre tocchi durante la partita;

con lui ho iniziato a capire il senso e l’importanza dei tempi di gioco, dei contromovimenti, dello scarico e palla al terzo uomo.

I suoi insegnamenti scindevano dal risultato, ma la verità è che se a quell’età una squadra è organizzata le partite in qualche modo le vince comunque.

Penso che fino alla categoria Allievi almeno, dovrebbe essere vietato giocare di rimessa, tenere la palla è molto più difficile che andarsela a riprendere, e se non si fanno propri fin da subito certi concetti e soprattutto certe attitudini, poi difficilmente le si impara più.

Al primo anno Allievi ho avuto la fortuna di trovare un altro “posto giusto”, questa volta non un tattico ma un motivatore.

Lui aveva la capacità di creare un gruppo, nonostante i suoi modi burberi e le scelte spesso poco convenzionali.

All’inizio era odiato da tutti in squadra, i risultati non arrivavano e una volta i miei compagni si riunirono persino per proporre insieme di mandarlo via, io che ero un anno sott'età in quella squadra, ricordo di aver pensato quanto fossero stupidi e infantili certi discorsi.

A fine anno abbiamo vinto il campionato regionale e siamo arrivati in finale scudetto, io 17 gol da terzino ed eletto miglior giocatore da allenatori e presidenti delle squadre della regione.

Sembrava si fossero allineati i pianeti. A fine anno sono stato comprato dalla squadra del mio cuore, ma purtroppo la fortuna era finita e l’allenatore che ho trovai segnò l’inizio e la fine del sogno.

Ho sempre umilmente pensato che allenarsi bene e dimostrare porti sempre e comunque a raggiungere i propri obiettivi, quell’anno mi è stato sbattuto letteralmente in faccia che purtroppo non sempre è così.

Solo le notti sanno quante volte io abbia pensato e ripensato a quella stagione, a quante volte abbia cercato spiegazioni nei miei ricordi e verità nei miei rimpianti;

quell’anno mi ha cambiato la vita e probabilmente è il motivo per cui mi ritrovo a scrivere questi testi.

Era la sesta o settima partita di campionato e la stagione era iniziata bene, gol all’esordio, assist, tutto perfetto anche se dalla partita precedente ero stato spostato difensore centrale causa l’infortunio del nostro titolare.

Giocavamo contro la Reggina, non posso scordarlo.

Nel riscaldamento mi si ruppero gli scarpini e fui costretto ad usarne un paio nuovo, di quella partita ricordo solo il dolore ai piedi e che una volta mi trascinai da solo palla in fallo laterale per quanto non percepissi la sensibilità con il pallone.

L'allenatore nel frattempo invece di darmi direttive si limitava ad insultarmi. Penso sia stato un mix di tutta la situazione, il dolore, la delusione di non riuscire a giocare come volevo, la frustrazione per essere così massacrato dal mio allenatore che sapeva, non solo che stavo giocando per la seconda volta nella mia “carriera” come difensore centrale, ma stavo anche giocando a piede invertito come si dice in gergo.

Non mi sentivo utile alla causa, ero nervoso, chiesi il cambio.

Da quel momento l’allenatore senza dirmi niente di fatto mi mise fuori rosa, e per i successivi quattro mesi di fila non fui convocato.

Si era creata una situazione surreale.

In settimana mi faceva allenare come difensore centrale, ma quando andavo a chiedere cosa fare per farmi riconsiderare mi diceva che mi vedeva come terzino.

Mi allenavo al centro per conquistarmi un posto sulla fascia in pratica. Mi ricordo che la società voleva giocassi perché a livello di prospettive credeva molto più in me che nel mio concorrente (casualmente con relazioni dirette con l’allenatore, tanto è che all’inizio di quell’anno era addirittura stato mandato via dalla società ma ripreso poi per volontà dell’allenatore stesso).

Tuttavia lui rifiutava di dargli spiegazioni sulla mia assenza dai convocati che non fossero “assenza di carattere”.

Quattro mesi, abbastanza per farmi crollare ogni fiducia in me stesso, quattro mesi in cui indipendentemente dall’impegno che mettevo in allenamento il risultato era sempre lo stesso, ho cercato sempre di allenarmi bene ma sfiderei chiunque a farlo sempre con il sorriso senza vedere neanche la panchina per cinque mesi, per giunta nel primo anno con la squadra che hai sempre tifato.

Ripeto, ancora ci ripenso ogni tanto, nei giorni tristi, ma analizzando i fatti forse con quell’allenatore non sarebbe mai potuta andare diversamente.

Analizzando i fatti forse non aspettava altro che una scusa per farmi fuori.

Nonostante tutto a fine anno mi sono conquistato il posto come difensore centrale, giocando molto bene alle finali scudetto, partite che mi sono valse la riconferma, ma non era più la stessa cosa.

L’anno successivo, il primo di Primavera, ho avuto l’allenatore forse più preparato di tutti a livello tattico-teorico, un vero professore, tuttavia le scelte di formazione purtroppo raramente erano le sue.

Di lui ricordo che passava la settimana a lamentarsi di giocatori che si allenavano male, chiedendosi perché la società li avesse presi, ma giocatori che poi regolarmente scendevano in campo.

Ricordo che in squadra avevamo i cambi programmati, cioè prima della partita era stabilito chi sarebbe subentrato e a che minuto, e regolarmente arrivava un dirigente a ricordarlo al mister.

Ricordo gli elogi che spesso mi rivolgeva prima di ogni allenamento, ricordo che fino a gennaio ero trattato come un tredicesimo titolare in una squadra di cui dieci undicesimi erano in nazionale e io l’unico senza procuratore.

Di quell’anno e di quell’allenatore conservo solo l’incoerenza delle scelte e dei comportamenti, perché quell’anno il campo l’ho visto solo tre volte, mai da titolare; purtroppo o per fortuna però quella volta senza aver mai avuto niente da rimproverarmi.

Io ero contento di essere in quella squadra, eravamo forti, mi divertivo in allenamento, semplicemente era stato deciso che non dovevo giocare, io come altri in squadra, e alla lunga divenne troppo palese.

Spesso nel calcio giovanile allenatori e dirigenti non si soffermano troppo a pensare che un ragazzo di 17-18 anni non è più un bambino ingenuo, un ragazzo a quell’età osserva, assimila, si fa delle domande e a malincuore si dà delle risposte.

Un ragazzo di 17-18 anni ha bisogno di spiegazioni, ha bisogno della verità.

Il mio ultimo anno di Primavera è stato il mio terzo ed ultimo “posto giusto”, di gran lunga il miglior allenatore che abbia mai avuto; purtroppo però non sempre si riescono a cogliere le opportunità che il destino ti presenta.

Lui è stato il primo allenatore che abbia mai incontrato che allenava puntando ad arrivare in serie A, ed infatti c’è riuscito pochi anni dopo.

Sinceramente auguro a tutte le persone che giocano o giocheranno a calcio ad imbattersi in una persona del genere, perché il modo in cui preparava meticolosamente le partite e la passione che metteva in ogni secondo di allenamento dovrebbe essere propria di ogni allenatore a livello giovanile.

Inutile dire che quell’anno abbiamo vinto il campionato, tatticamente e atleticamente eravamo troppo superiori.

Come le squadre di Serie A ogni allenamento e ogni partita la giocavamo con addosso un Gps che registrava tutto: dalla velocità media al numero di cambi di direzione, dalla distanza percorsa al tempo in cui invece si era stati fermi.

Ammetto che era un'ansia perenne ma anche uno stimolo a non mollare e a migliorarsi, sempre.

Quel Gps mi aiutò anche a vedere le cose in maniera più chiara, infatti dalla squadra del mio cuore l’anno prima ero stato mandato via perché giudicato “troppo lento”, mentre in questa ogni settimana gli allenatori e i preparatori atletici venivano da me esaltati perché quasi ogni partita correvo 12-13 km raggiungendo picchi di velocità massima di 30 km/h.

Ridevo, ma ogni volta era come riaprire la cicatrice della mia delusione.

Un altro esempio emblematico che mi piace sempre ricordare è una partita contro il Milan.

Avevamo preparato uno schema di pressing per cui gli lasciavamo credere di poter iniziare l’azione palla a terra, ma nel momento in cui il loro portiere, tra l’altro ora gioca in Serie A, dava palla al compagno (che in realtà avevamo deciso noi) subito ci muovevamo in modo che non avesse più linee di passaggio ed inevitabilmente si trovava costretto a regalarci palla, alla quarta volta incominciarono a lanciare direttamente lungo, ma di testa era sempre nostra.

Il fatto è che ogni settimana, indipendentemente che la partita fosse contro la Juventus o contro il Varese, vedevamo video degli avversari e dei suoi giocatori più forti, ci allenavamo tutta la settimana a muoverci e ad attaccare il modulo che utilizzavano, è stato un anno di preparazione meticolosa di distanze e di dettagli, fino alla vittoria finale.

Purtroppo come detto, a causa di infortuni ma soprattutto del fatto che nel mio sogno probabilmente non ci credessi già più, non sono mai riuscito ad arrivare al livello di gioco a cui quel mister mi avrebbe potuto portare, e probabilmente non essere stato sportivamente quello che lui è stato per me è il rimorso più grande.

Vivere un sogno dovrebbe essere amare il percorso prima ancora dell’arrivo, saper godersi ogni momento, ogni persona, ogni deviazione.

Sappiate godervi i vostri allenatori, imparate ad ascoltarli almeno quanto dovrete imparar ad ignorarli, non esaltatevi troppo facilmente e non fatevi scoraggiare, ma soprattutto non fatevi mai dire che non siete abbastanza bravi a fare qualcosa, almeno non finché non è finita, per non ritrovarvi a realizzare poi una notte, che forse non era ancora troppo tardi.

G.M.

Tags:



Newsletter

Collegati alla nostra newsletter per ricevere sempre tutte le ultime novità!