A metà strada tra Madrid e la costa del Levante c'è una cittadina situata nel cuore della pianura della Castilla-La Mancha, che da questa stagione ha riscoperto la passione per il calcio ed è tornata a riempire lo stadio Carlos Belmonte, cosa che non accadeva da 5 anni: Albacete. L'artefice di questo connubio tra tifoseria e squadra è l'allenatore, che sulla bio del proprio profilo Instagram ha scritto: “Con la pasion en la maleta”. Ovvero 'con la passione nella valigia', la frase che più lo rappresenta. “È qualcosa che mi ha sempre accompagnato in qualsiasi contesto”. Così Rubén Albés a Gianlucadimarzio.com. Il 38enne alla guida di quella che è l'autentica sorpresa della seconda divisione spagnola: sesto posto da neopromossa che vale i playoff a 2 giornate dal termine e con il miglior attacco, il tutto con il penultimo budget del campionato. Numeri che derivano da un gioco offensivo, di una squadra che però sa anche chiudersi e ripartire a seconda dell'avversario.
𝑼𝒏𝒂 𝑳𝑶𝑪𝑼𝑹𝑨 𝒍𝒍𝒂𝒎𝒂𝒅𝒂 𝑨𝑳𝑩𝑨𝑪𝑬𝑻𝑬 𝑩𝑨𝑳𝑶𝑴𝑷𝑰É
— Albacete Balompié 🤍 (@AlbaceteBPSAD) May 14, 2023
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Rubén Albés è l'allenatore più giovane della Segunda Division. Non una novità, per chi nel 2010 aveva l’età più bassa tra gli allenatori di tutta la Spagna alla guida del Burjassot. “Ho giocato a calcio in diverse categorie e a 22 anni quando ero nella quarta divisione spagnola al Pontevedra ho avuto un infortunio. Mi resi conto che il calcio professionistico era veramente lontano per me. Allo stesso tempo seguivo corsi di educazione fisica e iniziavo a chiedermi come migliorare le squadre, mi piaceva la tattica: la mia passione, le mie idee e la possibilità di diventare un giocatore professionista che si allontanava hanno fatto sì che iniziassi ad allenare le squadre Sub-19 al Pontevedra e il Sub-17 al Rapido de Bouzas. Studiavo e leggevo tanto, avevo la curiosità di chiedere ai colleghi per cercare di capire il calcio: come mai una squadra vince o perde, il funzionamento, quanto è importante la gestione dello spogliatoio, per poi crearmi un metodo e ottenere risultati”.
Ruben Albes: "Sono convinto che i miei credessero che fossi pazzo, ma non me l'hanno mai detto"
Nato a Vigo nel 1985, a supportarlo c’è sempre stata la sua famiglia. Sua mamma lavorava come maestra, mentre suo padre vendeva macchine in una concessionaria: “Sono convinto che hanno sempre pensato che avessero un figlio pazzo, ma non me lo hanno mai detto. Quando lo stipendio era basso e vivevo a tanti chilometri da casa, mi inviavano casse di cibo, perché è veramente difficile vivere di calcio allenando nelle categorie basse. L’affetto dei miei genitori mi ha dato la forza per continuare ad andare avanti”. Dopo gli studi di educazione fisica nella sua Vigo, il giovane galiziano si è trasferito a Madrid. “Allenavo la squadra di futsal dell’Università nell’ultima divisione di tutta la Spagna e abbiamo vinto il campionato: con quei ragazzi sono rimasto in contatto e sono tuttora i miei migliori amici in quella città. Quella è stata la scintilla che mi ha fatto capire che sarei voluto diventare un allenatore professionista: che per me non significava ambire alla Primera Division, ma vivere di calcio. Ma se avessi saputo quante difficoltà ci sarebbero state per diventarlo, oggi non rifarei quella scelta. I sogni e la perseveranza però mi hanno portato a questo”.
Dalla capitale si è poi trasferito a Valencia, per lavorare nella cantera dei murciélagos, i pipistrelli. “Grazie a un contatto ho iniziato ad allenare i bambini di 7-8 anni: allenavo la squadra più scarsa, ma avevo molta speranza ed entusiasmo. In quel momento, lavorare in un club grande come il Valencia era qualcosa di grandioso”. Erano gli anni del tiki-taka del Barcellona e della Spagna, ma anche dell’Inter e del Real Madrid dello Special One. “Non ho e non avevo modelli, guardavo gli altri allenatori ai quali ho fatto il vice. Il calcio d'élite era troppo lontano, in quel momento c’erano Guardiola e Mourinho, che erano i referenti per qualunque persona volesse iniziare ad allenare: opposti, ma 2 grandi leader capaci di convincere i propri giocatori nelle proprie idee e farli rendere. La cosa più difficile non è avere uno stile, ma convincere i propri calciatori a fare quello che hai in mente”. Qualcosa che diventa ancora più complicato se sei più giovane di loro o un coetaneo. “All’inizio può essere strano, ma devi capire con la persona con cui stai lavorando. Il calciatore, di qualunque età, vuole 2 cose: migliorare e vincere. Quando riesci ad ottenerle entrambe, normalmente si convince di quello che dici. Questo vale anche per altri aspetti della società. Il rispetto te lo dà l’esperienza, non l’età”.
"Avevo guadagnato di più lavorando nella compagnia telefonica che nelle precedenti esperienze da allenatore"
Dalla Spagna al Marocco. Nel 2012 Rubén Albés ha vissuto la prima esperienza all’estero al Wydad Casablanca come assistente di Benito Floro, ex allenatore tra le altre di Real Madrid, Villarreal e Albacete, con cui nel 1991 era stato promosso in Liga e l’anno successivo aveva sfiorato una storica qualificazione alla Coppa Uefa. Con la squadra a cui era stato dato il soprannome di Queso Mecanico, cioè 'Il formaggio meccanico', la fusione tra il pecorino manchego e l'Olanda del '74. “Quando stai vicino a qualcuno bravo è più facile apprendere qualcosa, non solo di calcio. Ho appreso una nuova lingua e una nuova cultura, vivere all’estero mi ha aperto la mente”. Un’esperienza durata un anno, per poi tornare in patria desideroso di allenare. Ma le cose non vanno sempre come uno si immagina. “Pensavo di trovare lavoro in poco tempo. Dopo qualche mese senza proposte e con i soldi che stavano finendo decisi di iniziare a cercare un altro impiego, ma non avevo fatto altro al di fuori del calcio. La prima opportunità è stata una compagnia telefonica a Valencia. Questa è stata una delle più grandi esperienze che ho avuto: mi ha permesso di sviluppare diverse capacità, di mostrare la faccia tosta, dovendo relazionarti e cercare di convincere la persona che hai davanti. Non è come quando vai al supermercato e devi vendere qualcosa che la gente cerca, ma ogni giorno dovevo percorrere 15 km del centro di Valencia e andare porta a porta per cercare di convincere i clienti. All’inizio avevo molte fatture, ma non riuscivo poi a chiudere il contratto di vendita. Il primo mese non ero riuscito a vendere nessuna linea. Il direttore ha premiato il mio sforzo, e nei 2 mesi successivi è andata meglio. Sono stati 3 mesi che mi hanno fatto vedere com’è la realtà della società al di fuori del mondo del calcio, perché molto spesso noi viviamo in una bolla. In quei mesi i miei genitori avevano smesso di mandarmi le casse di cibo, perché stavo guadagnando di più rispetto a quanto fatto prima in panchina”.
Il ritorno in panchina è grazie alla chiamata dell’Eldense, dove ha vissuto il momento più difficile della sua carriera. L'unica volta che ha pensato di mollare tutto. “Eravamo partiti male e non fiuscivamo a svoltare. C’è stata una conversazione privata con il mio vice e ci siamo detti: “Ci saremmo dovuti dedicare a qualcos’altro”. Eravamo in un momento triste. Ma ne siamo usciti davanti a una buona bottiglia di vino. Da quel momento poi siamo riusciti a fare un anno molto positivo”. Poi Valladolid B e il sogno realizzato di allenare nel club per cui tifa con la formazione B del Celta Vigo. Poi una nuova esperienza all’estero, ma stavolta in Europa e da allenatore di una squadra di massima serie. “Dopo 5 stagioni nella terza serie spagnola e a 2 mesi dalla fine della stagione, il mio agente mi parla di questa opportunità all’Hermannstadt: mancano 9 partite e dovevamo da raggiungere la salvezza. Vado lì con 2 aiutanti e tanta speranza. In Romania ho capito cosa significava essere un allenatore professionista: la relazione con i giornalisti e con giocatori, farlo in un altro Paese dovendo conquistarti il rispetto dei colleghi che ti vedono sempre come il più giovane della categoria, ma lì ero anche lo straniero: mi vedevano come se fossi venuto lì per rubare il loro lavoro. Questo mi ha aiutato a essere forte di testa. Perdemmo le prime 2 gare, pensavamo che alla terza ci avrebbero cacciato poi però abbiamo ottenuto 5 vittorie e 2 pareggi che ci hanno permesso di salvarci, ma anche di raggiungere il miglior piazzamento del club nella sua storia recente”.
Qualcosa di simile era accaduto anche al Lugo, nel 2021 in Segunda. “Sono arrivato a 7 giornate dalla fine dopo 16 gare senza vincere e 8 sconfitte di fila. Ci siamo salvati all’ultima giornata con una vittoria contro il Rayo Vallecano che aveva conquistato la promozione in Liga. È stata un’esperienza intensa, drammatica e anche tra le più belle. Al presidente avevo raccontato durante la prima riunione quello che avevamo fatto in Romania e gli dissi: “Ci salveremo”. Bisogna essere bravi a vendersi a volte per convincere qualcuno”. L‘esperienza nella compagnia telefonica è stata utile. “Ogni tanto ricevo messaggi dal direttore e da qualche cliente a cui avevo venduto linee per farmi i complimenti oppure per qualche battuta sul mio passato”.
Il Piccolo Principe, la resilienza e il sogno Liga
Qualche anno fa leggeva libri sul calcio, tra cui Periodizacion táctica vs periodizacion tactica di Vitor Frade, ora legge Il Piccolo Principe. “Un libro incredibile con messaggi bellissimi indipendentemente dall’età“. E con il tempo è cambiato anche il suo carattere, ma anche il suo stile. “Rispetto a quando ho iniziato sono molto più umile. L’esperienza ti permette di riconoscere ciò che è veramente importante: capire il calciatore, non solo in campo, ma anche con se stesso, convincerlo che è migliore di quello che crede". Per definirsi usa la parola ‘plastico’. "Pragmatico, ora cerco più il risultato, prima ero più dogmatico, volevo giocare in un solo modo e ora invece voglio esaltare le caratteristiche dei miei giocatori per farli esprimere nel miglior modo. Il mio dogma iniziale era più vicino allo stile di Guardiola, per cercare di controllare il gioco, prendersi tanti rischi e pressare alti, oggi sono più diretto: l’unico dogma è cercare di segnare all’avversario ed emozionare la tifoseria”. La formula che ha conquistato i tifosi dell’Albacete, e sui social è stata anche creata una pagina che si chiama Albesismo. “Ho avuto la fortuna di trovare un gruppo con fame e ambizioni importanti. Siamo riusciti a far identificare la gente con la squadra. Siamo una squadra che definisco 'canalla' nel senso buono: che va oltre i soliti canoni prestabiliti, con furbizia e faccia tosta. Nessuno poteva immaginarsi questo rendimento e ora lotteremo per la promozione con tutte le nostre forze”. Un’altra parola che ricorre sotto ai suoi post o che ripete durante le interviste è 'afouteza', un termine galiziano che si può tradurre in resilienza.
Tra una panchina e l'altra ha avuto modo di conoscere anche l'Italia, in vacanza. Firenze, Milano, Roma e la costiera amalfitana, ma guarda anche la Serie A quando può. “Vedo tutto. Il Napoli di Spalletti è una squadra interessante, non solo per aver vinto lo scudetto, così come l’Inter di Mourinho per la capacità di far giocare tanti giocatori offensivi in una struttura che non era quella abituale. La linea a 3 o a 5 di Antonio Conte ha fatto cose molto interessanti e anche Gasperini con il suo gioco ha 2 ritmi: con e senza palla”. Qualcosa di simile al suo Albacete. “Noi cerchiamo di recuperare il pallone in avanti, altre volte faccio come Bielsa: abbasso un attaccante e di conseguenza un centrocampista per avere un difensore in più quando giocano con 3 attaccanti oppure cerchiamo di recuperare alto e velocemente per poi fare molti duelli uno contro uno. Qui faccio questo, ma in altre squadre giocavo diversamente. Dipende dai giocatori”. A 2 giornate dal termine dalla stagione regolare, il popolo Albo sogna con l'allievo di Floro il ritorno in Liga dopo 27 anni del Queso Mecanico.