Se ci fosse stato un modo migliore per disegnare la sua serata perfetta, l'avrebbe quasi immaginata così. Percentuale poco distante dal 100% a livello di desiderio, con la restante, piccola parte polverizzata da uno degli episodi chiave all'interno della partita: la spugna gettata in anticipo da Payet, suo compagno in Nazionale ed avversario oggi, tradito da un muscolo improvvisamente rivelatosi troppo fragile. Competere al massimo con e contro tutti, nella testa di Antoine Griezmann, è legge scritta e fondamentale per chi tra i migliori, da tempo, sa di esserci eccome: motivo per cui forse, pur nella gioia di un'Europa League conquistata e marchiata a fuoco con il suo numero 7, Grizou tenterà un nuovo salto di qualità, oltre Madrid. Con un probabile saluto al quale, almeno stasera, pensare un pochino meno, abbassando lo sguardo e osservando quel tatuaggio sul braccio che stasera, più di ogni altra occasione, ne rappresenta il punto più alto della propria carriera.
"Fai della tua vita un sogno, e di un sogno una realtà". Le Petit Diable che segue l'aforisma del Petit Prince (o "Piccolo Principe", se preferite) di Antoine de Saint-Exupéry, elevato a massima di vita: inchiostro sulla carta e sottopelle divenuto metafora capovolta di chi ormai è diventato grande, prendendosi la più bella delle rivincite proprio lì, nella città in cui venne scartato da piccolo dall'OL per un fisico ritenuto troppo fragile. Lione che toglie e dà, dando linfa a quel concetto di speranza che Grizou, in "hope" e con una quattro lettere tatuate tra indice e mignolo della mano, ha coltivato e visto fruttare al massimo: nascere a 70 km da un "Parc OL" 27 anni fa non ancora costruito, a Maçon, e vedere il destino regalargli proprio lì, a 45 minuti dal paese natio, la gioia più bella, in un cerchio chiuso (forse anche in rojiblanco) e sigillato, da protagonista, nella finale contro il Marsiglia.
"Sono partito a 13 anni da casa mia per arrivare a questo". E alla faccia di chi non ci ha creduto, già: merito degli osservatori della Real Sociedad, pronti a scommettere e puntare su di lui, fino a crearne un potenziale fenomeno. Francese per carta d'identità, non per anima, più che iberica: Antoine di facciata, Antonio o Toni (se voleste) a livello caratteriale e di testa, incastrato con forza come un pezzo di Lego in quel paese che lo ha talmente cambiato da stravolgergli vita e cuore. Non le maniche della maglia, sempre lunghe (anche con temperature elevatissime) per imitare l'idolo Beckham, indossando un numero sulle spalle a tal proposito non casuale: sicuramente, invece, il modo di esultare, che tra la vecchia ispirazione ad una canzone di Drake ("Hotline Bling") e l'imitazione di un videogioco ("Fortnite") viene sempre, costantemente accompagnata da un "vamos". Con una "L" sulla fronte, quasi casualmente, a fungere da collegamento all'iniziale di quella città dove tutto (non) è nato...
Non che la storia sia cambiata stasera, anzi: doppietta, da una porta all'altra e con parola chiave annessa, e un pensiero a Fernando Torres prima del triplice fischio, alla penultima partita in maglia colchonera, per qualche minuto di gloria più che meritato. Cambio chiesto a Burgos per regalare al Niño una gioia sognata sin da bambino, la prima (a livello europeo) per entrambi con la maglia dell'Atléti, prima di dire addio: certamente da un lato, con la coppa sollevata da un nueve ufficialmente pronto a salutare, probabilmente anche dall'altro. Quello di chi festeggia facendo sedere la figlia Mia sulla coppa, in compagnia della moglie Erika in campo, e che ha rovesciato un mondo di scetticismo in continue standing ovation: con una chilena allo Stade de Gerland qualche anno fa, capace di ammutolire Lione con la Real Sociedad, e con una doppietta decisiva oggi. Da Petit Diable che all'inferno, gli avversari, sa mandarceli per davvero. Seguendo aforismi tra sogni e realtà che, di piccolo, ormai hanno veramente ben poco.