Fra il Mapei Stadium e Parma ci sono una quarantina di chilometri. La sua Parma, dove ha iniziato a giocare, dove ha vissuto una delle prime esperienze da allenatore, dove vive ancora mamma. Quella rigida, che “è lì a ricordarmi sempre che non ho mai vinto nulla”. Fino ad oggi, perché dopo 23 anni di carriera, Stefano Pioli ha conquistato il suo primo titolo. Il suo, perché nessuno più di lui ha messo la firma su questo scudetto del Milan, il diciannovesimo, il primo negli ultimi 11 anni.
Oggi che si stringe con i suoi ragazzi, grida, piange di gioia, non se lo ricorda quasi nessuno. Quel 9 ottobre 2019 in cui arrivò a sostituire Marco Giampaolo, mettendo piede su un pianeta ostile, in cui i colleghi erano caduti come tessere del domino, schiacciati dalla pressione, da aspettative disoneste, sopraffatti dalla decadenza di un Milan che non sapeva più essere se stesso. I tifosi lo compativano come se fosse il prossimo. Invece era il primo. Il primo di una nuova epoca rossonera. Perché, anche se non l’avrebbe detto nessuno, dopo l’era Berlusconi il Milan è entrato nell’era Pioli.
Grazie a lui, il primo Milan a vincere qualcosa dopo il cavaliere è entrato nel cuore dei tifosi più di tanti altri. Senza essere il migliore. “Ci ha ridato la speranza”, si agita un tifoso con gli occhi che brillano, in una Reggio Emilia che è una gigantesca macchia rossonera. “Ha dimostrato che i soldi nel calcio non sono tutto, prima viene l’attaccamento alla maglia”, fa un altro. Dentro il rettangolo ballano insieme. “Pioli is on fire” e il milanismo brucia di passione come mai da un decennio a questa parte.
È questo il capolavoro dell’allenatore rossonero, aver preso una squadra a cui nessuno dava una lira e, quando già i social gridavano al #PioliOut, ergersi a capopolo e portarla ben oltre i suoi limiti. Facendole credere che limiti non ne avesse. Come si vince uno scudetto faticando ad avere una punta in doppia cifra? Con il tuo trascinatore (Ibra) più fuori che dentro? Senza il tuo difensore più importante per metà stagione? Dovendosi inventare terzini-centrocampisti, mediani-trequartisti e fantasisti-esterni di sacrificio, partendo da un materiale umano modesto rispetto alle concorrenti?
Chiedere a Stefano Pioli. Quello lì, che fino a due anni fa era considerato modesto allenatore all’italiana, al massimo buon gestore, circondato da un’aura di normalità tale che qualcuno (Zamparini) lo considerò così causa persa da esonerarlo prima dell’esordio in campionato. La Lazio lo mandò via nonostante uno storico ingresso in Champions. All’Inter, che oggi piange le occasioni perse, arrivò a stagione in corso e non la finì nemmeno. Da due anni a questa parte, invece, il suo Milan è la squadra più tatticamente raffinata e, a tratti, spettacolare del campionato.
Lo è stata anche nell’inferno di Reggio Emilia, dove si prevedevano 18.000 rossoneri ed erano minimo 20.000 (su 21). Di fronte ad uno scenario straniante, dove gli emiliani erano tutto meno che padroni in casa propria, il Milan è stato assatanato nello spirito e paradisiaco nel calcio. Totale, inesorabile. Una squadra senza fenomeni, predestinata al più alla sconfitta, ma tanto convinta di essere migliore degli altri da piegare la realtà al suo volere. Così si entra nella storia dalla porta principale.
Sarà che il Sassuolo porta bene. Qui, due anni fa, Pioli si guadagnò la conferma sulla panchina rossonera, allontanando il fantasma di quel Ralf Rangnik che prometteva rivoluzione. E che poi ha deluso tutti in una Manchester dove, oggi, i giornali si chiedono se non sia il caso di imitare il modello-Milan. Quello che dopo l’era Berlusconi è entrato nell’era Pioli. Anche mamma ne sarà orgogliosa.