Che il Barcellona si fondi su principi e riti intoccabili, quasi sacri, lo capirebbe anche un alieno. D’altronde, se sbarcasse proprio nel Camp Nou se ne accorgerebbe giusto con uno sguardo ai seggiolini. Quel “Més que un club” è un annuncio spocchioso, quasi da Marchese del Grillo, ma è fondato: il Barcellona è identità — non prima del calcio, ma insieme ad esso — politica, un modo di vedere il mondo unico, a tratti utopistico.
Questo essere per costituzione “un po’ più” degli altri è un privilegio ed è il motivo stesso per cui il Barça è una delle squadre più vincenti ed iconiche della storia. A volte, però, anche un limite, un obbligo autoinflitto a seguire certi rituali solo perché gli si attribuisce un valore identitario — perché sono, semplificando, da Barcellona.
Uno di questi è la composizione della rosa. Leggenda vuole che vada così: i Barcellona migliori della storia hanno sempre avuto una sostanziosa base proveniente della cantera, dunque impregnata dalla cultura blaugrana, arricchita da una stella arrivata dall’estero per illuminare e dare varietà al sistema made in Can Barça. I più staranno già pensando al recente ventennio dorato, quello in cui è stato l’argentino Leo Messi a guidare il Barça, ma prima di lui erano stati Joahn Cruyff (anni ’70) e László Kubala (anni ’50), alcuni dei più iconici leader stranieri dell’“esercito disarmato della Catalogna” — che, ironia della sorte, l’ha fondato uno svizzero.
Insomma, fra le tante manie del socio del Barça c’era anche questa: idealmente, si gioca con una decina canterani e un fenomeno; alternativamente, un fenomeno e una decina canterani. C’era, però, perché oggi qualcosa sembra essere cambiato.
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Alla ricerca di giovani talenti
I blaugrana, nonostante il ritorno dal sapore restaurazionista di Laporta alla presidenza, sembrano aver abbandonato l’integralismo che portava a pensare che ogni giovane dovesse provenire dalla cantera. Senza svolte clamorose, ma sporgendosi sul panorama del mercato per cercare attivamente non solo giocatori affermati; anzi, soprattutto giovanissimi spagnoli, che, scovati dagli scout, dimostrano di possedere l’identità blaugrana senza che gli sia stata insegnata all’ombra della Sagrada Familia.
L’ultimo esempio è di pochi giorni fa, quando il Barcellona ha annunciato l’acquisto di Pablo Torre, trequartista nato in Cantabria nel 2003 e proveniente dal Racing di Santander. Con i bonus, spenderebbe oltre 20 milioni per un diciottenne di cui si parla molto, molto bene. Si dice addirittura che fosse sotto la lente d’ingrandimento di altri grandi club, come il Real Madrid. Ma ha senso pensare che, adesso, i giovani talenti possano essere molto attratti dal Barcellona: sanno che lì potranno fare molti minuti, anche in contesti europei, e giocare ad un calcio che, con Xavi in panchina, sembra essere tornato ad alti livelli. Tornato, per riprendere il discorso iniziale, all’identità-Barça.
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Appena una rondine non farebbe primavera, e infatti Torre non è il solo esempio di questo cambio di paradigma. Pedri, ultimo premio Kopa e ventiquattresimo al Pallone d’Oro, è arrivato dal Las Palmas nel 2020. È diventato subito un imprescindibile, un leader, ma in un vecchio Barça magari non sarebbe arrivato proprio, o sarebbe arrivato più tardi (e più caro). 72 presenze in una stagione per smentire i pregiudizi e convincere tutti che si può stregare il Camp Nou anche con l’accento canario. Serve solo il talento, e qui non manca.
Il nome di Ronald Araujo, poi, suonerà meno accattivante, ma da quando è approdato dall’Uruguay a 17 anni è cresciuto tanto, e ora è uno dei pilastri della squadra, nonché fra i più apprezzati dai tifosi per la sua dedizione alla causa (lodevole soprattutto perché aspetta da un po’ troppo il rinnovo del contratto, guadagnando ancora sotto al milione nonostante sia un titolarissimo). Poi c’è Ez Abde, giovane esterno da 12 presenze quest’anno, arrivato la scorsa estate dall’Hércules.
Anche Gavi potrebbe entrare in questa lista, volendo, sebbene sia arrivato molto piccolo dalle giovanili del Betis. Ferran Torres, invece, potrebbe già essere fuori scala, acquistato giovane, 22 anni, ma con lo status di giocatore affermato a livello internazionale.
Il cambiamento non è ancora epocale, ma nelle radicate manie del barcellonismo rappresenta già qualcosa di significativo. Specialmente proprio perché questi nuovi giovani hanno dimostrato che esistono giocatori da Barça anche al di là di Les Corts, e se non parleranno catalano ce ne faremo una ragione. Che non vuol dire dimenticarsi della cantera, la quale rimane un serbatoio di talento indispensabile per il club (si pensi, per esempio, a Nico González, Ansu Fati o al figliol prodigo Eric García), tanto più in momenti di ristrettezza economica, ma giocare d'astuzia, anche sul mercato.
Crescere insieme
I più attenti avranno notato che, rispetto al discorso iniziale, un’altra differenza è che mancherebbe la figura del fenomeno arrivato dall’estero per potenziare il DNA blaugrana. Ecco, fra i tanti riti il Barcellona questo farebbe bene a non perderlo. L’impressione, però, è che dovrà essere proprio il rendimento di questi nuovi giovani eroi — cantabri, andalusi, canari — a trascinare il Barcellona in una nuova era, anche finanziaria, in cui i Messi e i Cruyff del futuro potranno riportare la Champions in catalogna.
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