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Giak, si tira. Una magia di Giaccherini cancella il Var e tiene vivo il Chievo

“Tiro io, ok?”. È il minuto 75 di una partita senza domani. Le speranze del Chievo di restare in A sono appese a un’occasione. Passano da una punizione ai 20 metri. Posizione centrale, leggermente spostata sulla destra. Ideale per il mancino di Birsa. Sembra tutto apparecchiato per lui, ma lo sloveno ha i crampi. Emanuele Giaccherini, 33 anni e una stagione fin qui deludente, passa da lì e chiede se può provarci. Fino a quel momento ha segnato solo due volte: uno all’esordio contro la “sua” Juve e… uno all’inizio di novembre nella sua porta contro il Sassuolo. Un autogol grottesco, manifesto di una stagione no.

“Tiro io, ok?”. “Ok”, risponde Birsa, senza troppa convinzione. Chissà quanto l’ha aspettato quel momento, Giaccherini. L’occasione per cancellare quel retropassaggio diabolico del 4 novembre. La sua rincorsa, morale, parte dalle mani in faccia dopo aver visto quella palla finire nella rete sbagliata. La sua rincorsa vera è fatta di quattro passi. Destro all’incrocio, la rete giusta che si scuote. L’urlo del Bentegodi, la prima vittoria della stagione. Il Chievo vince 1-0 contro il Frosinone e tiene viva la fiammella della speranza. Otto punti alla fine del girone d’andata, altrettanti dal quartultimo posto. Tanti – ma non troppi – per sognare una rimonta eroica. Una rincorsa alla Giaccherini.

È la storia della sua vita, del resto. Partire dal basso e risalire. Dalle giovanili in Casentino alla Juventus. Da Talla a pilastro della Nazionale di Conte. “Se si chiamasse Giaccheriño, sarebbe molto più considerato“, disse di lui l’allenatore che gli dette una maglia da titolare nell’europeo francese. Sono passati due anni, ma sembra una vita. Perché dopo quel torneo scelse Napoli. E col sostituto di Conte sulla panchina del Chelsea non andò altrettanto bene. Mesi di amarezze e di panchine, fermo a guardare gli altri correre. Sarri che lo vede solo come vice Callejon, lo spagnolo che non ne salta mai una. Migrazione al nord per ricominciare.

Niente che possa spaventare un ragazzo che perse la milza in uno scontro di gioco a sedici anni. Poteva morire, è diventato un professionista, nonostante clavicole e caviglie rotte. Ha fatto panchina in C2 in Romagna senza perdere il cuore. Ha vinto scudetti e guadagnato salvezze. L’ultima l’anno scorso, la prima la guadagnò col Cesena. Motorino inesauribile, talento compresso in 167 centimetri. Da piccolo era interista. Da grande è diventato un’icona del rinascimento juventino. Non ha rimpianti per l’anno e mezzo perso, sportivamente, a Napoli. Non è il tipo.

La sua punizione cancella anche quelli che avrebbe potuto avere il Chievo. Spazza via le polemiche per il gol di Pellissier annullato dal Var alla mezzora del primo tempo. Nello stupore generale, senza proteste. Banti da uno schermo segnala a Rocchi l’ostruzione di Radovanovic su Sportiello. Una mazzata per una squadra chiamata a vincere a ogni costo. “Lucida follia”, aveva chiesto Di Carlo prima della partita. Come quella di Sorrentino, 40 anni tra due mesi e 350 partite in serie A, che sullo 0-0, salva sulla riga un colpo di testa di Chibsah. Pellissier, Sorrentino, Giaccherini: gente da Chievo, uomini da rincorse impossibili.

Quattro passi di Giak possono cambiare il copione di un’annata che sembrava già scritta. Sarebbe una storia da cinema.

A proposito. C’è un documentario che sta spopolando su Netflix. Riguarda il Sunderland, ex squadra della mezzala toscana. Racconta la fede della sua gente, nonostante le avversità.

Si chiama “Sunderland, till I die”. Till I die. Finché vivrò. Somiglia tanto al “fino alla fine” juventino. Il motto che accompagna la carriera del Giak. “Giaccherini, till I die”. Suona bene. Se si chiamasse Giaccheriño magari suonerebbe anche meglio. Ma alla fine conta solo scuotere la rete giusta. E risorgere, a 33 anni.

Buone feste da Verona, Giak che ci siamo.