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A tutto Stramaccioni, tra Roma, tempi da calciatore e Inter: “Quando Moratti mi scelse, caddi dalla sedia”

“Il mio primo rapporto con il calcio fu la finale dei mondiali del 1982, vista casa degli zii. Ero un bambino, avevo sei anni. Ma quel giorno, guardando Tardelli e Rossi, mi innamorai di quella cosa tonda che rotolava e di tutto quello che c’era intorno”. Galeotta fu quella coppa del Mondo e la grande Italia di Bearzot, insomma, per Andrea Stramaccioni: ma non solo. “In quel campionato 1982-83 la Roma vinse lo scudetto e la mia mania si consolidò. Tancredi, Nela, Maldera… Ero giallorosso dalla testa ai piedi, e lo sono rimasto”. Da Roma a Milano, per l’avventura nerazzurra tra settore giovanile e grande chance in prima squadra: poi, Udine e la Grecia, prima della risoluzione consensuale con il Panathinaikos. Prima, però, un lungo tuffo nel passato, nell’intervista concessa oggi al Corriere dello Sport, partendo dagli esordi calcistici: “Giocavo, nell’ora di ricreazione, nel cortile della scuola. Venti minuti infuriati di merendine e dribbling ubriacanti per tutti noi. Un papà mi vide e disse a mia madre che ero bravo e che sarebbe stato bene farmi giocare sul serio, in qualche squadra. Mamma rispose che io già facevo pianoforte, chitarra e piscina e che poi il calcio era un posto dove si bestemmiava e lei voleva io crescessi educato. Per esorcizzare almeno questo ultimo rischio mi portarono, alfine, a giocare in un oratorio dei salesiani, al Pio XI. C’era anche Liverani”.

Poi, la tappa a Bologna: “Mi chiamarono alla Romulea, storica società del calcio capitolino. Allora ero centrocampista centrale, avevo i piedi buoni e mentalità da regista. A meno di 14 anni mi prese il Bologna, tirando fuori 75 milioni. L’offerta della Roma? Non abbiamo mai saputo dell’offerta dei giallorossi, e il mio destino di calciatore e forse la mia vita sarebbero cambiati se l’avessi saputo. Quando diventai allenatore delle giovanili giallorosse andai a cercare negli archivi. Trovai una scheda con il mio nome, la mia foto e le mie caratteristiche tecniche. In fondo era scritto, in un cerchio rosso, “Prendere subito”. A Bologna la prima sensazione fu di grandissima felicità: il primo sapore dell’autonomia, il sentirsi grandi. Ma dopo un mese tutto cambiò. Piangevo, mi sentivo solo, mi mancava casa. Chiesi ai miei di venirmi a prendere. Al Bologna pensavano fosse una manfrina, che in realtà Juventus o Roma stessero premendo per avermi e io cercassi questa scusa per rescindere il contratto. Così mi sfidarono e mi dissero che potevo stare a Roma dal lunedì al venerdì, allenarmi con la Romulea, e poi salire a Bologna il sabato per giocare. Una follia. Ma accettai. Passai dai Giovanissimi alla Primavera, saltando tutte le categorie intermedie. Esordii a quindici anni. Ero titolare, cominciavano a darmi un po’ di soldi, ero considerato il miglior difensore centrale, ruolo in cui ero stato reimpostato, che ci fosse tra i ragazzi italiani. Ho giocato nelle nazionali della mia fascia d’età. Mi sembrava di toccare il cielo con un dito. Poi tutto crollò, in un maledetto minuto di recupero di una partita di Coppa Italia con l’Empoli, in prima squadra: nella mia prima da professionista, mi si è piantato il ginocchio in terra e mi sono rotto tutto: tre legamenti su quattro, oltre a fratture varie. Dopo gli incidenti il Bologna voleva mandarmi in prestito, come si fa con i ragazzi della Primavera. Per due volte mi presero, fecero firmare un contratto e poi mi rifiutarono. L’ultima volta, ad Avellino, dopo aver siglato un biennale, mi fecero una tac totale e poi mi rimandarono indietro, come un oggetto fallato. Io decisi allora di smettere. A lungo ho avuto gli incubi: sognavo che correvo ma non riuscivo a raggiungere il pallone, che volevo tirare ma non ci riuscivo. Mi ero perso, è stato un momento durissimo. Dalla nazionale a niente, in mezzo un calvario di dolore e fatica. Tutto inutile, ormai”.

La svolta? In panchina: “Per tre anni non ho voluto parlare di calcio, vedere le partite, toccare un pallone. Poi andai all’Az Sport, su proposta di mia madre e del mio agente di allora, e fui incaricato di allenare gli Allievi. Allenare è metà scuola e metà realizzazione delle proprie idee. Quando comincio ad allenare, il primo giorno, dico ai ragazzi che una squadra, per funzionare, deve essere fondata su una parola: rispetto. Rispetto delle regole, dei ruoli, delle persone. All’Inter l’impatto fu “atipico”, a riguardarlo oggi persino divertente. Mi trovai catapultato dal settore giovanile in uno degli spogliatoi più importanti e più pesanti del mondo. Era l’anno dopo il triplete: ricordo che, per la prima visita nello spogliatoio, avevo appuntamento con Ausilio e Branca che dovevano presentarmi. L’inizio fu da film comico. Arrivo davanti a questo benedetto spogliatoio e faccio per aprire la porta. Ma non si apre, la maledetta. Allora insisto e cerco di forzare. Poi mi fanno presente che è una porta scorrevole. Faccio questa figura da ispettore Clouseau e finalmente entro. È stata quella frazione di secondo che dura secoli: io li guardo in faccia, finora li conoscevo solo sulle figurine: Sneijder, Milito, Zanetti, Cambiasso, Stankovic, Julio Cesar. Io dentro di me ho pensato che loro si saranno detti: “ma che abbiamo fatto di tanto male per meritarci questo?”. Dissi loro: credo che quello che abbia portato il presidente a fare questa scelta sia quel poco che ha visto di qualità calcistiche di me alla Primavera. Quindi non sono qua per fare il fenomeno ma per mettere le mie qualità calcistiche al servizio della squadra, con umiltà ma anche con grande consapevolezza di quello che faccio. Questo gli ho detto. E l’inizio è stato fantastico, perché in nove partite siamo riusciti ad arrivare in Europa, vincemmo il derby 4 a 2 e si stabilì un grandissimo feeling con i giocatori. Non sono stupido: sono stati i giocatori che hanno detto al presidente che ero la persona giusta. Lui mi confermò, mi fece tre anni di contratto”.

In quello spogliatoio, però, qualcosa finì per rompersi: “Ci fu una sequenza di gravi infortuni a uomini chiave: poi due problemi di gestione. Uno con Sneijder che la società voleva vendere per capitalizzare. Lui era il mio dieci ideale e con lui ci trovavamo molto. Ma Sneijder non accettava la nuova destinazione e la società mi chiese di metterlo fuori rosa. Mi dissero che ci avrebbero parlato loro ma quando lo fecero Wesley per poco non buttò giù la porta dell’ufficio. Io non potevo fare nulla, di fronte alla volontà determinata della società e Wesley lo capì. La seconda è Cassano, che probabilmente è stato un mio errore. Io ero convinto di potermi prendere il lato tecnico di un campione incredibile e per i primi sei mesi lui mi ha dato tantissimo. Poi si sono create delle tensioni anche per ragioni legate al suo contratto futuro. Insomma è finita male e mi dispiace. Ma la cosa decisiva fu che il presidente Moratti stava preparando la cessione della società. Da tempo mi aveva avvertito che cercava soci. Prima di una partita con la Lazio mi prese da parte e mi disse che l’Inter non era più sua. Era stato lui, con coraggio, a volermi su quella panchina. Con il suo lungo ciclo che finiva terminava anche la mia breve e intensa stagione nerazzurra”.

Iniziata in maniera particolare: “Allenavo, con ottimi risultati, i giovani della Roma. Rosella mi fece un contratto molto lungo, un quinquennale, per blindarmi, ma l’Inter venne con una proposta eccezionale. La Roma nuova non si fece sentire e io, piangendo andai via. Divento allenatore della Primavera dell’Inter e andiamo a giocare con il Tottenham per la Youth League. Finisce sette a uno per loro. Il primo tempo sei a zero. Io non ci volevo credere, mi alzavo e prendevamo gol, mi risedevo e riprendevamo gol. Il presidente Moratti, mi raccontarono poi, disse “cosa ha fatto la Primavera?. Ha perso sette a uno? E questo allenatore qui sarebbe quello bravo?”. Poi quella squadra ha vinto tutto: lo scudetto, siamo arrivati in semifinale in Coppa Italia e abbiamo vinto la Champions. Pensi che abbiamo fatto la finale della Champions League giovanile contro l’Ajax nello stesso stadio dove avevamo preso 7 gol in Inghilterra ad agosto. Moratti si mise dietro la panchina a seguire l’incontro. Era venuto esclusivamente a sentire quello che dicevo, come mi muovevo, come parlavo. Due giorni dopo ero l’allenatore dell’Inter: mi convocò al ritorno dalla finale. Ausilio mi sconsigliava di accettare, temeva che mi bruciassi, temeva le polemiche. Moratti mi guardò, tirando fuori un blocco bianco e mi chiese come avrei fatto giocare quella squadra. Ho detto tutto quello che pensavo. E abbassati gli occhiali, mi disse: “A me non frega niente di quello che diranno, lei è il nuovo allenatore dell’Inter”. Sono caduto dalla sedia”.

Poi, tra Udinese e Panathinaikos: “Per me era una prova di stima che la famiglia Pozzo mi avesse cercato. Era un nuovo inizio.La mia colpa è stata non accendere nella squadra la voglia di arrivare a qualcosa di più e inconsciamente ci siamo adagiati sul traguardo e il finale di campionato è stato negativo. Purtroppo sì era concluso un ciclo, come si è confermato negli anni successivi. Al Panathinaikos? Il loro general manager prima era nella nazionale greca. Seguendo Karnezis e Kone venne a vedere due partite dell’Udinese. Fui fortunato. Giocammo un buon calcio, i giocatori diedero un parere positivo su di me e mi hanno chiamato. È stata una bella esperienza personale e professionale. Finisce senza polemiche nè lacerazioni”. Chiusura sul futuro: “Mia moglie è incinta e tra due mesi avremo una bambina. Il primo bimbo ha due anni quindi adesso ci organizziamo con calma, ma torneremo sicuramente. Tra l’altro, per le regole del calcio greco, io potrei allenare domani. Cosa che al momento non si profila, però”. E inevitabile un pronostico sul derby: “Da romano e romanista, ho la speranza che la Roma possa essere la vera grande antagonista della Juventus per il titolo. Domani gioca contro una Lazio che è in una forma fantastica, ma non sempre i derby li vince chi sta meglio in quel momento. Vedremo, però sono contento che sia tornata la sfida tra due squadre di vertice”.