Vent’anni dopo l’assedio, la città di Sarajevo veste ancora gli abiti della guerra. Chi pronuncia il nome di questa città, lo associa a scheletri di edifici bruciati e case spazzate via dalle bombe, cimiteri e ponti ricordano ancora incubi lontani. Oggi Sarajevo sta rinascendo, una ricostruzione che si basa sull’orgoglio e sulla cultura di chi in quella terra ci è nato. Di chi non molla mai e continua a lottare. Con raggi di felicità che fanno dimenticare sia i brutti ricordi sia i recenti pensieri. Il calcio è uno dei raggi più luminosi. Con il derby tra FK Sarajevo e FK Željezničar che resta l'occasione preferita per tornare a sorridere. Lo dicono gli stessi tifosi: “Guardiamo le partite per avere un po’ di gioia”. Dal 1954 FK Sarajevo-Željezničar è il derby di tutta la Bosnia e ieri il 109° della storia è finito 0-0.
Dodicimila persone allo Stadion Koševo (che avrebbe potuto ospitarne il triplo), Manijaci (Maniaci) e Horde Zla (i giovani dell’Ordine dei Diavoli) a sfidarsi in un’atmosfera caotica ed affascinante di tifo assordante. Ancora una volta lo spettacolo maggiore è stato in tribuna e non in campo. Quattro squadre in una città, il Mostarski derbi è il più pericoloso mentre il Sarajevski derbi è il più spettacolare: gli storici ferrovieri plavi (blu) a rappresentare il popolo da una parte; i Bordo-Bijeli “borghesi” con le loro divise granata dall’altra. I primi figli della Jugoslavia dal 1921; i secondi nati grazie ai comunisti dopo la II Guerra Mondiale ora con un proprietario malese. Nelle comunità locali il calcio è importante, quartieri, strade e famiglie sono divisi dalla fede calcistica. Politica, religione e classi sociali si contrappongono: come in ogni derby che si rispetti la partita è uno scontro totale di pensiero e abitudini. Precisiamo: 'scontro' tra virgolette.
Il fiume Miljacka divide la città e, idealmente, anche queste due realtà. Ottenere un biglietto per la partita non è mai un problema; in più i prezzi sono bassissimi. I gruppi di ultras si danno appuntamento e poi marciano verso lo stadio tutti insieme, accompagnando i loro passi con colpi di tamburo. In campo è lotta su ogni pallone, sugli spalti solo cori, striscioni e fumogeni. Un pomeriggio dal profilo basso, senza problematiche tra le tifoserie come invece era accaduto nelle occasioni precedenti. Molti dei presenti al Koševo in passato hanno difeso la città sotto assedio: oggi sono stati nemici per 90 minuti ma dopo il fischio finale si sono riavvicinati per qualche sigaretta e un caffè bosniaco. Si ritrovano ogni giorno nei luoghi semplici della comunità, quelli che durante la guerra erano i luoghi delle stragi.
Due realtà che convivono ogni giorno e che sono vicine anche in classifica. Diciannove punti e terzo posto per entrambe le squadre. Lo stadio in cui si è giocata la partita di ieri – tra moschee e chiese cattoliche e ortodosse – è stato un rifugio durante l’assedio e di recente il teatro dell’omelia di Papa Francesco. Poco più di dieci anni dopo un conflitto che non ha risparmiato nulla, la Bosnia e il calcio a Sarajevo stanno provando a ricostruirsi. Il livello di gioco piuttosto basso, i buchi generazionali e la copertura mediatica praticamente nulla costringono però molti calciatori a lasciare lo stato. Come ha fatto Dzeko nel 2006: da Sarajevo all’Italia, il percorso inverso di Matteo Boccaccini, classe ’93 del Brescia in prestito allo Željezničar ieri titolare per tutta la gara. “La guerra ancora si respira per strada, quando si vedono persone mutilate – ha raccontato alla Gazzetta dello Sport - il paese si ferma per il derby, i tifosi ci tengono tantissimo”. Per avere un po’ di gioia, per tornare a sentirsi uniti.