Carlos Tevez racconta l'Apache, il giocatore che è in campo, le scelte che nel corso della carriera (e inevitabilmente della vita) ha dovuto fare in bilico sempre tra la sua felicità e quella della sua famiglia. Ora è tornato a casa, al Boca: come un cerchio che si chiude. E ai microfoni di Marca ha deciso di raccontarsi, di ricordare le sue vecchie maglie e i suoi ex compagni di squadra, di spiegare cosa è per lui il calcio e di confidare come è essere un'icona. "Mi auguro di essere un esempio per i bambini", ha detto.
"Perchè il ritorno al Boca? Per molti motivi, ma soprattutto perchè ho trascorso molto tempo fuori. Ci sono stati anni in cui non vivevo con i miei genitori e la mia famiglia. Ho perso tante cose. L'Argentina è il mio posto. Ora posso trascorrere del tempo con gli amici di una vita, un qualcosa di raro". Ma facciamo un passo indietro, a quando Simeone lo chiamò e gli propose di andare all'Atletico: "La chiamata del Cholo mi entusiasmò molto. Giocare in Spagna mi sarebbe piaciuto molto, ma non potevo dire no al Boca". Dell'Europa gli manca "la tranquillità", barattata con la felicità di essere tornato a casa. Tevez poi torna ancora più indietro nel tempo, alla sua infanzia a Fuerte Apache: "E' la mia essenza. Mi educò la strada, non la scuola. Gran parte di quello che sono ora lo devo a Fuerte Apache. Non ho mai dimenticato da dove vengo".
Della parentesi in Inghilterra ha ricordato il rapporto con Alex Ferguson e con Cristiano Ronaldo: "Con Ferguson avevo un rapporto normale. Nell'ultimo mio anno al Manchester United siamo arrivati in finale di Champions ma alla fine non ho trovato alcun contratto da rinnovare sul tavolo. Ronaldo? Ha una personalità molto forte e si allena sempre al massimo. E' il primo che arriva al centro tecnico e l'ultimo che se ne va. Se deve lavorare di più per diventare migliore di Messi? Anche lui allena sempre il suo talento". Capitolo nazionale: "Tornarci dipende da me - ha ammesso -. Se continuo ad allenarmi e a lavorare così, immagino che potrò farcela".
Tante partite sulle spalle, un'infanzia che non si dimentica e tante cicatrici sul corpo che "mi ricordano da dove provengo e chi sono adesso. Ho fatto tre mesi di terapia e non mi ricordo come vissi quel periodo, ero molto piccolo. Ma quando mi guardo allo specchio e le vedo, so che sono parte della mia vita". E la sua vita è futbòl: "Per me il calcio è un gioco. Un giorno però so che potrò vivere senza il calcio e per me non sarà un problema. A casa non vedo partite e non parlo di calcio. Con i miei amici parliamo della famiglia, giochiamo a carte... Ma se giocano Real-Barça e si stanno contendendo un titolo, chissà magari ne vedrò un po' ". E quando appenderà gli scarpini al chiodo: "Dovrò fare i conti con mia moglie! Mi piacerebbe viaggiare per il mondo, conoscere diverse culture, cibi...". Parola di Apache.