Non segnare. Finire al centro delle chiacchiere e sopportare le conseguenti critiche. Reagire e tornare a esultare più di prima. La carriera degli attaccanti è fatta anche di questi momenti. È capitato e capita a tantissimi. Momenti bui, dove a mancare sono i gol. Ma alla base di tutto c’è una sorta di blocco psicologico: un blocco dello scrittore in senso calcistico. A cadere in questo impasse sono spesso i calciatori più celebrati quando non riescono a soddisfare le alte aspettative. Ci sono passati Vlahović e Lautaro Martínez, così come Dovbyk, l’ultimo grande attaccante approdato in Serie A.
Il non essere sereni pone dei limiti invisibili. Le cose non vengono in modo naturale, ed ecco che un attaccante si ritrova in difficoltà a fare la cosa che gli riesce meglio: segnare. In estate la Roma ha accolto Artem Dovbyk. Le aspettative su di lui erano altissime, legittimate dai 24 gol realizzati ne LaLiga 23/24. L’entusiasmo è sceso sensibilmente durante le sue prime 5 partite in giallorosso: 387 minuti giocati e zero marcature. A interrompere il trend negativo è la gara col Genoa: gol, esultanza intensa e abbraccio con tutta la squadra. Poi si ripete contro Udinese e Athletic Bilbao. Scaricarsi di dosso le pressioni e sentirsi più sereni. Più liberi e spensierati.
Da Roma a Torino, con destinazione Allianz Stadium. Da Dovbyk a Vlahović. È una Juve da tutto o niente, che segna 3 gol o ne fa 0. E la sua punta uguale: o realizza una doppietta, o non trova la porta. In tutte le prime 8 partite della stagione è accaduto esattamente questo. Dopo l’Hellas Verona, Vlahović ha dovuto attendere più di un mese per ritrovare la rete. Poi la svolta in un Ferraris irriconoscibile e la storia a Lipsia. Nel post-partita di Champions si è presentato un ragazzo tranquillo, nelle parole e nei movimenti. Un ragazzo che sta bene e ha ritrovato il gol.
La tranquillità l’ha riacquisita anche Lautaro Martínez. L’argentino, dopo una Copa América da assoluto protagonista, ha iniziato la stagione mancando il gol in 7 partite consecutive (Cile e Colombia comprese). Dopo il derby, Lautaro ha preso l’Inter per mano, conducendola alla vittoria contro l’Udinese e in Champions con la Stella Rossa. Capitano. E allora sì che la testa conta più dei piedi, d’altronde parte tutto da lì. “È il cervello a fare la differenza. Bisogna giocare felici”, parole del mental coach Marco Marchese (QUI L’INTERVISTA COMPLETA).
Parte tutto dalla testa. È dentro di lei che si manifestano i momenti di felicità o l’esatto opposto. Ed è lei, ancor prima dei piedi, che permette ai grandi attaccanti di realizzarsi. Per avere una prova, basta leggere l'opinione di un bomber come Gonzalo Higuaín: “Ci provi, ma i gol non escono. E quando escono, lo fanno tutti insieme, come il ketchup. Me lo disse Van Nistelrooy in un periodo in cui non segnavo. È importantissimo segnare, ma non sempre si riesce”.
È importantissimo segnare, ma lo è ancor di più giocare felici e col sorriso. Spensierati e, di conseguenza, naturali. Con la testa libera. Maradona, uno che basava il proprio calcio su questo concetto, diceva: “Se non sono felice dentro, non riesco a essere un campione”. Ritrovare la serenità con i gol, ritrovare la spontaneità grazie alla serenità. Elementi fondamentali per tutti, soprattutto per gli attaccanti.