In collaborazione con RedBull.com
Cos’è il genio? Al quesito hanno provato a rispondere in molti. “Talento, disposizione naturale, attitudine a qualche cosa”, recita il vocabolario Treccani. Il concetto, applicato al mondo del calcio, risulta di più facile interpretazione o quantomeno più intuitivo: una giocata, un assist, un gol, un dribbling. Ma genio è anche un’intuizione, magari quella di un allenatore: un cambio tattico, uno schema vincente. Se al concetto di “genio in panchina” proviamo ad associare i numeri la materia diventa ancora più affascinante. Dal 4-4-2 di Arrigo Sacchi al 4-3-3 di Zdenek Zeman, fino al 3-5-2 che ha regalato molti successi ad Antonio Conte. Poi c'è il 3-6-1 di Sandro Pochesci, ma guai a definirlo integralista: «Ho detto che giocavamo con il 3-7, invece abbiamo capito che giocando così subiamo troppe ripartenze: allora metteremo un uomo a fare da guardia ai sei che attaccano», spiega proprio Pochesci.
Tutta l'energia da mettere in campo
Sandro Pochesci non è un tipo che passa inosservato, a prescindere dai moduli: «Noi romani abbiamo carattere e temperamento da vendere, magari a volte possiamo essere antipatici, ma sicuramente veri». È uno che si è “fatto da solo”, tra mille difficoltà: «Facevo il portantino nel reparto dialisi di Ostia, ma era un lavoro part time. Poi è arrivata la chiamata della Viterbese e dopo il lavoro allenavo la squadra (senza patentino, ndr). Non ho mai saltato una giornata di lavoro perché riuscivo a fare entrambe le cose». Ma non chiamatelo personaggio, anche se davanti alla telecamere ci sa fare eccome. Pochesci ha un solo credo: il lavoro. «Lieldolhm chiedeva sempre a un campione del mondo come Bruno Conti di fare su e giù, perché io non dovrei pretendere il massimo sforzo dai miei ragazzi? Devono sgobbare in campo e fuori con una mentalità sempre vincente. Ho giocato una vita nei campi di Eccellenza e Serie D e pretendo che tutti i calciatori mi seguano. Non importa quali categorie abbiano fatto, l'importante è che diano tutto. A volte qualche calciatore perde tempo in "cazzate", ma non sono quelle le cose importanti della vita. Io i calciatori che parlano di sacrifici li odio, sono privilegiati e devono dare il mille per cento».
Avere un focus sull'obiettivo
Sandro Pochesci ha passato degli anni molto difficili dopo la morte di sua moglie: «Mia moglie è morta il 3 dicembre di 26 anni fa. Mi è morta in braccio, quando mio figlio aveva solo 15 mesi. Ogni mio respiro è per lei e per i genitori per cui era l’unica figlia. La mia impresa più grande è anche la sua». E allora eccola un’altra parola d’ordine: sognare. In grande, ovvio. «Fare calcio senza lasciare un segno non ha senso. Già la vita è dura, dobbiamo essere ambiziosi per prenderci qualcosa di grande».
Mente e corpo sul campo di gioco
Una scalata fatta di passione, sudore, sacrificio e quell’alone di genio che lo circonda da sempre: dalla polvere della Serie D alla favola Fondi in Lega Pro, fino alla chiamata della Ternana in Serie B. Ma guai a pensare di essere arrivato, anzi: «Quando dormo faccio sogni stupendi: sono partito dalla prima categoria e se sognassi di fermarmi in Serie B sarei uno sciocco». Perché genialità a volte è andare controcorrente. Un esempio? «Ibrahimovic potrebbe avere difficoltà nella nostra squadra. Lui prende palla e gioca da solo, noi giochiamo a due tocchi. Con l'unico allenatore che voleva giocare così (Guardiola, ndr) è andato via. Zlatan le partite le vince da solo, non ha bisogno della squadra. Lo metti davanti e tutti devono giocare per Ibrahimovic». E per un genio come Pocheschi vincere così avrebbe davvero poco gusto.