Rewind Champions 1998: Real campione, blancos al settimo cielo
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Data: 14/04/2016 -

Rewind Champions 1998: Real campione, blancos al settimo cielo

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Real Madrid 1998: Illgner; Panucci, Hierro, Sanchis, R.Carlos; Redondo, Karembeu, Seedorf; Raúl (’90 Amavisca), Mijatovic (’89 Suker), Morientes (’82 Jaime). All. : Jupp Heynckes

Il 20 maggio 1998, all’Amsterdam Arena, il Real Madrid affronta le sue paure più grandi, giocandosi in una sola partita l’esito dell’intera stagione. Iniziato l’anno nel migliore dei modi, con la vittoria della Supercoppa contro il Barcellona, la squadra allenata dal neo acquisto Jupp Heynckes è agli albori di un nuovo ciclo, avendo cambiato molti elementi della vecchia guardia. Sono andati via Fabio Capello, Buyo, Lasa, Milla e Alkorta, rimpiazzati da Karanka, Karembeu e Morientes, oltre al già citato allenatore tedesco, proveniente da un’ottima esperienza con il Tenerife. La stagione però non prende la piega desiderata e, dopo l’eliminazione agli ottavi di finale di Copa del Rey da parte del modesto Alaves, arriva un deludente quarto posto in campionato. Se in patria le merengues stentano a decollare, in Europa è tutta un’altra musica: superato il girone di Champions League con facilità, alle fasi finali il Real supera il Bayer Leverkusen prima e il Borussia Dortmund campione in carica poi, arrivando alla finalissima contro la Juventus. Nella finale di Amsterdam, entrambe le squadre giocano contro i propri incubi: il Real per riportare la Champions a Madrid dopo 32 anni, la Juventus per non uscire sconfitta di nuovo all’ultimo atto. La gara è nervosa, decisa solamente da un gol di puro opportunismo di Predrag Mijatovic: ripercorriamo ora quell’undici titolare che ha deciso le sorti di quella stagione, ricordando le sue gesta e scoprendo che fine abbiano fatto gli interpreti della ‘septima’. Bodo Illgner, prima campione del Mondo poi d'Europa: 190 centimetri per 92 chilogrammi, un armadio vivente. Il portierone tedesco arriva al Real a 31 anni suonati, dopo una carriera offerta al Colonia che gli dà in cambio le chiavi della porta della nazionale tedesca, con cui diventa campione del mondo nel 1990. A Madrid, Illgner riesce a migliorarsi e in quattro stagioni vince sei titoli, tra cui due Champions League. Nel 1998 fa da comprimario a un giovane Canizares, giocando le partite europee e lasciando al collega di reparto le gare di Liga. Decisivo nei quarti di finale contro il Bayer Leverkusen, si ritaglia la sua favola e entra nella Top 11 degli stranieri della storia del Real Madrid, prima di cedere il passo a Casillas. Christian Panucci, un po' d'Italia: nel ’97 raggiunge il suo mentore Fabio Capello in Spagna, poi resta con le merengues anche l’anno dopo malgrado l’assenza dell’allenatore italiano. Mai scelta fu più azzeccata: in due stagioni e mezzo, Panucci diventa campione di Spagna, d’Europa e del mondo, confermandosi un giocatore di primissimo livello. Dopo la Spagna, una serie di avventure finite male con Inter, Chelsea e Monaco, fino all’ambiente ideale trovato a Roma. Nella capitale vive otto anni e diviene un pilastro della squadra allenata da Spalletti. L’ultimo anno di carriera lo vive a Parma, poi inizia subito la carriera da allenatore: prima con il suo maestro Capello, con cui però non mancano le tensioni, poi l’avventura in solitaria sulla panchina del Livorno. Manuel Sanchis, il capitano: da Butragueno a Raúl, è il ponte che unisce le due generazioni madridiste, quelle vincenti. Terzo nella classifica all-time delle presenze con la maglia del Real, Sanchis è il capitano che alza al cielo la ‘septima’ dopo 32 anni di astinenza. Venti trofei conquistati con la squadra della sua città, dalla ‘Quinta del Buitre’ all’alba dei ‘Galacticos’, Manolo c’è sempre stato: solido appiglio difensivo di una squadra storicamente votata all’attacco, professionista esemplare che non si è mai fatto abbagliare dalle luci del Bernabeu. Fernando Hierro, il maresciallo: se Sanchis è il cattivo, Hierro rappresenta indubbiamente l’alter ego del suo compagno di difesa: con più di 100 gol all’attivo, il numero 4 del Real è il connubio tra tenacia e classe. La caparbietà nei contrasti fa da contraltare a una tecnica di base che lo vedrebbe bene anche come regista, tanto si diverte a impostare il gioco dalle retrovie. Dopo una carriera votata al Real Madrid, Hierro vola in Qatar dove gioca per un anno, prima di chiudere la carriera al Bolton. Appesi gli scarpini al chiodo, intraprende la strada da dirigente e quindi quella da allenatore, trionfando con il suo Real in qualità di vice di Ancelotti. Roberto Carlos, il funambolo: il terzino più atipico degli anni 2000, un funambolico brasiliano che per le sue caratteristiche ben figurerebbe nel tridente d’attacco (come tanti appassionati di videogiochi sanno bene). Al Real per più di dieci anni, Roberto Carlos arriva a Madrid dopo l’incompresa parentesi all’Inter, per rivelarsi uno dei fluidificanti più forti del suo tempo. Insieme a Hierro e Raúl, è una delle colonne del Real a cavallo dei secoli e proprio da un suo tiro è nato il gol di Mijatovic nella finale del ’98. Fernando Redondo, el principe: un regista dal tocco vellutato che arranca nel calcio spasmodico del terzo millennio, con la corsa svogliata e il carattere ribelle a fare da cornice a uno dei quadri più belli che il calcio argentino potesse dipingere. ‘El principe’ è il faro di quel Real Madrid, il fine cervello che olia gli ingranaggi tattici e filtra tutti i palloni da inviare al reparto offensivo. Due Champions League con le merengues e un’altra con il Milan, un grande del calcio mondiale che non è riuscito a esprimersi al meglio con la sua nazionale a causa della sua sfrontatezza, troppo spesso pagata a caro prezzo. Christian Karembeu, cavallo pazzo: Sanchis sta a Hierro come Karembeu sta a Redondo. Uno inventa, l’altro contiene; la corsa del francese a sostegno della fantasia dell’argentino, per dare compattezza a una squadra fin troppo fantasiosa. Karembeu viene prelevato dalla Sampdoria, dopo che nel ’95 aveva vinto il campionato francese con il sorprendente Nantes. Il 1998 è l’anno di grazia per il francese: a maggio arriva la vittoria della Champions League, con i suoi 3 gol tra quarti e semifinale che risultano determinanti, un mese dopo diventa campione del mondo. In campo come nella vita, il dinamismo che lo ha sempre contraddistinto si trasforma in intraprendenza: prima sposa la supermodella Adriana Sklenarikova, poi conduce una serie di documentari in Nuova Caledonia. Clarence Seedorf, Champions... e due: sembra il fratellino di Karembeu, con quelle treccine che tanto li fanno assomigliare fin dai tempi di Genova, con la maglia blucerchiata. Giovane talento dell’Ajax campione d’Europa nel ’95, Seedorf è nettamente più forte del compagno di reparto francese. L’olandese ripaga le aspettative e diventa un fuoriclasse della scena mondiale: dopo le vittorie con il Real, passa al Milan e diventa il primo e unico calciatore ad aver vinto la Champions League con tre squadre diverse. Raúl González Blanco, #7: Real-Raúl, un binomio che diviene inscindibile e caratterizza la squadra più forte del mondo per quasi vent’anni: un capitano mitologico, atipico, un leader a tutto tondo. Raúl è un normale che compie giocate anormali, un fenomeno che appare mediocre, un divo che si nasconde dietro le mura di casa. Un hombre de equipo, uno che ha segnato più di quattrocento gol in carriera ma non si cura della rete gonfiata, anteponendo a tutto la vittoria della squadra. Pochi discorsi altisonanti, qualche parola al momento giusto e si carica le cinghie dell’aratro sulle spalle, per trainare il gruppo verso l’obiettivo preposto. Per distacco, è il più grande calciatore spagnolo di tutti i tempi. Raúl González Blanco: gioca, segna, vince. Facile no? Fernando Morientes, el moro: insieme a Raúl ha formato la coppia più letale di fine millennio, una complicità inimitabile oggi difficile da imitare. ‘El moro’ ha dato tanto al Real, vincendo una moltitudine di titoli, tra cui tre Champions League. Poi, come troppo spesso capita da quelle parti, viene messo in disparte per far spazio ai nuovi acquisti galattici. Ha però ancora qualcosa da dare al calcio, e si vendica della sua ex squadra portando il Monaco nella finale europea più prestigiosa, battendo in semifinale proprio il Real Madrid. Predrag Mijatovic, cannibale dell’area di rigore: ma capace anche di deliziare le folle anche al di fuori dei sedici metri. Lo slavo indomito, autore della rete che ha deciso la finale contro la Juventus, uscito dal campo a pochi minuti dalla fine per prendersi l’abbraccio di chi aspettava quella coppa da più di trent’anni. Ha sempre giocato d’anticipo, Mijatovic: stupiva le difese avversarie con le sue finte e i contromovimenti che lo liberavano al tiro; è arrivato anni prima della regola che avrebbe reso regolare quel gol in fuorigioco, con l’introduzione della ‘giocata’ del difensore; ha spiazzato tutti quando il Real Madrid lo ha nominato direttore sportivo. Una vita giocata a rubare i secondi agli altri, pur di scaraventare il pallone in fondo alla rete. Jupp Heynckes, ‘Don Jupp’: riporta la Champions League a Madrid e, come ringraziamento, viene esonerato a fine stagione dal presidente Sanz. Nulla di nuovo in Castiglia, dove a volte il motto ‘ganar y divertir’ conta molto più dell’umano buonsenso: il quarto posto in campionato è una macchia troppo vistosa per proseguire con Heynckes, al quale viene dato il benservito. Il tedesco è abituato ai duelli con la dirigenza, reduce dalle esperienze con Bayer Monaco, Eintracht e Tenerife. Dopo il Real, continua ad avere rapporti turbolenti anche con Benfica e Schalke 04: il suo carattere scontroso, il suo atteggiamento tanto simile a quando negli anni ’70 spadroneggiava in Europa con la maglia del Borussia Moenchengladbach indosso, lo rendono un allenatore insopportabile e presuntuoso. Malgrado i numerosi fallimenti però, Jupp Heynckes si ritira dal mondo del calcio con la superbia di chi sa di essere invidiato dai suoi colleghi: prima la vittoria con il Real Madrid in un periodo infelice per il club, poi l’apoteosi finale con il Bayern Monaco nel triplete del 2013. di Andrea Zezza


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