Gli allenamenti, la vita da spogliatoio, i cori, l'odore dell'erba. Chi sa quanto saranno mancati in questi anni a Stefano Guberti, che lo scorso 5 gennaio ha ricevuto la grazia da Tavecchio. Lo stesso esterno sardo racconta, nel corso di un'intervista concessa a La Gazzetta dello sport, rabbia e emozioni provate nella triste vicenda personale: "Il rancore non aiuta a giocare meglio, anzi. Certo, all’inizio di questa vicenda ero infuriato col mondo e soprattutto con Masiello che mi aveva accusato. Ora mi piacerebbe incontrarlo in campo e batterlo da avversario: sarebbe una soddisfazione doppia. A un certo punto ho toccato il fondo, l’odio stava mettendo a rischio tutto. Persino gli affetti più cari, compreso mio figlio. Così poco alla volta il dolore si è trasformato in energia positiva, sono maturato. Voglio dimostrarlo con i fatti, iniziando dal campo. Comportamenti diversi: con avversari, arbitri e tifosi. Niente più gesti sopra le righe. Mi concentrerò solo sul mio lavoro, cercando di ripagare la fiducia avuta dal Perugia".
Guberti userà la sua esperienza come esempio da portare ai giovani: "Mi piacerebbe trasformarla in qualcosa di utile ai ragazzi. Solo passando attraverso certe situazioni si capiscono gli errori. Nel calcio, specie negli anni passati, troppe cose si davano per scontate. Nessuno ci spiegava i rischi di alcune abitudini. L’omertà, ad esempio, era una prassi. Invece è un errore madornale, le scommesse e le combine distruggono il calcio. Io ho sbagliato e spero che altri non ripetano il mio errore. Dovevo denunciare subito, ma allora nessuno mi ha aperto gli occhi. Avevo appena firmato con la Roma, quella con la Salernitana era la mia ultima gara col Bari. Pensavo 'che m’importa'. Ho pagato per questo. E la lezione ce l’ho impressa sulla pelle come un tatuaggio".
Tristi ricordi di una pagina da voltare definitivamente: "All’inizio pensavo che la squalifica sarebbe stata cancellata. Dopo il primo stop ero sempre nella rosa della Roma, facevo le stesse cose di chi giocava: Zeman mi dava indicazioni. Solo quando lo stop è diventato definitivo ho capito cosa stava accadendo. E sono tornato a casa. A Villamassargia, dove tutti mi conoscono. Ogni sera andavo ad allenarmi con una squadra di D. E spesso facevo doppia seduta, sfruttando i pomeriggi con un altro club. Mi lavavo la tuta, lucidavo le scarpe. Pianti? Sì, molti. Mai davanti agli altri, sempre da solo. È il mio carattere...Pensavo di non tornare più a fare il calciatore. Un amico mi propose di aiutarlo con la sua azienda: distribuisce bibite in Sardegna. La mia compagna mi ha sempre fatto sentire importante".
Fondamentale il sostegno della famiglia: "Ma il momento più toccante è stato durante una cena con i miei. Papà è di poche parole, mi avrà detto 'bravo' due volte. Rimasi di sasso quando mi sussurrò: 'Stefano, sei la nostra vita. Saremo sempre con te e pazienza se non tornerai a giocare'. Con le lacrime agli occhi gli ho fatto una promessa. Sto per mantenerla. Con la sentenza a favore si sono rifatti vivi in tanti, persone sparite dopo la squalifica. Compagni e pseudo amici. Anche questo mi è servito. Ora guardo al futuro: voglio tornare in A. Spero di farlo col Perugia. Se accadrà devo dire grazie, oltre alla mia famiglia, all’avvocato De Rensis, artefice del capolavoro in tribunale, e ai presidenti Tavecchio e Abodi. Finalmente mio figlio vedrà il papà correre dietro a un pallone in una gara vera. Ha 4 anni e mi chiede perché resto sempre in tuta. Un giorno gli spiegherò che poteva andare molto peggio...".