Qualcuno ha scritto che “il passato è una terra straniera”. Frase tanto affascinante quanto bizzarra. Provate a dirla a un uomo di 59 anni che ne ha passati 13 con la stessa divisa: 5 da giocatore, 8 da allenatore. Prima centrocampista, poi direttore d’orchestra. Ruoli diversi, trionfi simili. Carlo Ancelotti e il Milan hanno viaggiato e riso insieme per tutto quel tempo, a partire dal 1987.
Primo flashback. La Roma decide di cedere Carletto al club di Berlusconi. Il presidente Dino Viola pensa di aver fatto un affare, vendendo ai neoricchi del calcio italiano il ragazzo di Reggiolo dalle ginocchia fragili. Viola incassa 5 miliardi, ma il biglietto vincente della lotteria finisce a Milanello.
Sacchi in panchina, Ancelotti in mezzo al campo e un gruppo di fenomeni intorno. Carlo risorge, i rossoneri vincono tutto. Cominciando di fatto al San Paolo. Primo maggio ’88: Napoli-Milan 2-3, sorpasso in testa alla terzultima giornata, primo scudetto in tasca e alba di un’egemonia.
Salendo i gradini del tunnel, forse Ancelotti ripenserà a quel giorno. L’attesa assordante dello stadio, il silenzio sulla doppietta di Virdis e infine gli applausi ai vincitori. “Quello spettacolo mi lasciò a bocca aperta. Deve essere da quel pomeriggio che ho cominciato davvero a coltivare il mio sogno di lavorare al sud”, ha detto Ancelotti recentemente.
Trent’anni dopo, il sogno si è avverato. E il destino ha voluto mettere presente e passato subito di fronte. Carlo di nuovo contro il Milan. Sono passati 17 anni dall’ultima volta. All’epoca allenava la Juve e lo sconfisse 3-0. Poche settimane dopo, al termine del campionato, venne esonerato. Amareggiato e frustrato da due scudetti consecutivi sfumati all’ultima giornata contro le romane. La pioggia di Perugia prima, la magica notte di Nakata al Delle Alpi poi. Sconfitto, destino insolito per un uomo capace di vincere ovunque, ma non in bianconero.
Ma nella vita, la famiglia è sempre l’àncora a cui aggrapparsi.
Nell’87 il Milan gli aveva teso la mano aiutandolo nella risalita. Nel 2001 fece lo stesso. Ma solo da novembre, perché gli 8 anni da tecnico rossonero, Ancelotti li ha iniziati subentrando a Fatih Terim. Decisione di cuore, preludio di una simbiosi unica.
Diciotto mesi dopo l'esordio, la prima istantanea memorabile, a Manchester. Roque Junior zoppo a centrocampo, i miracoli di Dida, gli occhi di Sheva sull'ultimo rigore, la prima Champions da allenatore, proprio contro il suo passato più "esotico".
Fotografie di un nuovo inizio, le prime di un album lungo 420 panchine. Indimenticabili, nelle gioie e nei dolori: lo scudetto vinto contro la Roma, la notte di Atene e quella di Yokohama. Trionfi col retrogusto di rivincita. Sul tetto d’Europa prima contro la Juve, poi contro il Liverpool che lo aveva fatto piangere nella folle serata di Istanbul. In cima al mondo contro il Boca, quattro anni dopo la beffa subita quattro anni prima contro gli xeneizes nella stessa città.
Ricordi incancellabili e alchimie tattiche, Pirlo davanti alla difesa e un albero di Natale disegnato per far divertire i giocolieri del centrocampo, con Kakà pallone d’oro a rifornire Sheva e Inzaghi.
Anni di sopraccigli e trofei alzati, fino all’addio a Firenze in un giorno di maggio del 2009. L’ultima panchina rossonera, nell’ultimo giorno della carriera di Paolo Maldini.
Napoli-Milan li rimette davanti, stranamente esordienti, su parti opposte della barricata. Si abbracceranno, poi succederà lo stesso con Gattuso, suo primo guerriero al fronte nelle battaglie più dure. Oggi sono colleghi. E rivali, ma solo per un’ora e mezzo. “Io sono l’allievo e Ancelotti è il maestro. In questi anni, quando mi sono trovato in difficoltà, l’ho chiamato spesso. Per me è più di un allenatore”. Parole di Ringhio alla vigilia, didascalie di un rapporto fisico immortalato su quell’album che resta lì da sfogliare. Abbracci ed esultanze gridate, rabbia e carezze consolatorie.
Iconografia di un passato che non ha niente di straniero.