La nostra intervista a Matteo Sereni
Quando gli parli, hai la sensazione di sentire un vecchio amico con cui hai mantenuto i rapporti ma a cui telefoni solo poche volte all’anno. Poi gli chiedi: “Ti ricordi questa parata?” e lui ti risponde ridendo: “Basta calcio!”. Ma come? Resti stupito. Eppure non dovresti farlo: Matteo Sereni è sempre stato così. Schietto, diretto: non rinnega il suo passato ma non lo vuole rivivere. È passato. Ha mantenuto quel carattere coriaceo che maschera una capacità di riflessione e una simpatia che si aprono a poco a poco. “Sai, sono come Celentano: ho sempre odiato rivedermi come lui risentirsi. Non a caso è il mio idolo”. Questa che raccontiamo in esclusiva per Gianlucadimarzio.com è la storia di uno di noi, per restare in tema. Di sogni e prospettive, di liti e delusioni. Di un calciatore, di un padre, di un uomo.
“Non sono una persona social: non sto al telefono ore e ore. Non mi piace mettere le mie foto, preferisco i confronti diretti” esordisce così. “Conoscenze nel calcio molte, amici pochi. Penso a Jimmy Fontana (con lui al Torino, ndr) o Mihajlovic o Marcolin. Ma sono i primi nomi che mi vengono in mente, in realtà ne ho anche altri e non vorrei fare un torto a nessuno. Ah, c’è anche Roberto Baggio: non lo sento da un po’ ma abbiamo sempre avuto un rapporto bellissimo. Quanto li chiamo? Poco, sono un po’ orso”. La sua è la storia di un predestinato: cresce nella Sampdoria, dove esordisce nel 1995. Quindi Piacenza, Empoli, il ritorno a Genova e il passaggio al Brescia del “Codino” e Guardiola. Una parentesi in Inghilterra all’Ipswich Town. Poi la Lazio, il trasferimento al Torino (98 partite: record personale di presenze) per chiudere al Brescia. Un curriculum importante, “che avrebbe potuto essere anche diverso”.
Sereni: "La mia lite con Lippi, i miei presidenti"
Cominciamo. “Nel 1999 dopo la A a Empoli mi venne prospettato un triplice trasferimento: Roma, Juventus e Inter. Con i primi era fatta: offrivano 31 miliardi alla Sampdoria; alla Juve ero stato pensato per il dopo Peruzzi e all’Inter per il dopo Pagliuca. D’accordo con il mio agente, scegliemmo i nerazzurri: 5 anni e un contratto faraonico che avevo già prefirmato, saltò tutto all’ultimo e persi quel treno”. Perché? “Lo decise Lippi: voleva Peruzzi e fece di tutto per farlo arrivare a Milano. Mi arrabbiai molto, al punto che quell’anno durante una riunione tra capitani e allenatori lui venne da me a chiedermi se ce l’avessi con lui. La mia risposta? ‘Sì, mi hai rovinato la carriera’. Glielo dissi in faccia”. Pochi anni dopo sarebbe diventato il ct della Nazionale.
Il treno dei desideri. Riecco Celentano, playlist della sua vita. “Non ho mai frenato troppo la lingua”, ammette. “Fossi stato più posato, forse avrei fatto qualcosa di diverso. Ma io vivo di confronti e faccia a faccia, è sempre stato così”. Ne ha avuti anche con i presidenti. Alcuni hanno fatto la storia del calcio. “Nella Samp ho conosciuto Mantovani, un uomo di altri tempi. Mi ha illuminato: è stato piacevole conoscerlo. Lui era il classico uomo di calcio, un po’ come Garilli che ho incontrato a Piacenza, o il primo Corsi di Empoli”. C’è anche Corioni: “Ha creato un Brescia incredibile. Ma credo che senza una figura come Mazzone, che sapeva gestire le sue esuberanze, il Brescia non avrebbe ottenuto quei grandi risultati”. Poi, Lotito. Con lui, il rapporto fu strano: “Cominciai da titolare nel periodo in cui lui ereditò una società con 50 giocatori da ingaggi spropositati. Giocavo io, non Peruzzi, ma mi chiese di dilazionare il mio biennale in cinque anni. Rifiutai”. Di nuovo Peruzzi nel destino, di nuovo un no: “Non volevo essere venale, ma stavo giocando tanto, Delio Rossi mi aveva dato delle garanzie e non mi sembrava giusto. Venne stabilito che fossi messo fuori rosa per sole questioni di mercato. Non litigammo praticamente mai: dovessi rivederlo lo saluterei, senza rinfacciargli nulla. Quello che è stato, è stato”. Conobbe il primo Corsi, il primo Lotito e anche il primo Cairo: “Voleva fare bene e ci ha sempre messo di tasca propria, ma all’inizio si è scontrato con una tifoseria bellissima ed esigente, che chiedeva subito il Toro in Uefa”.
Non Europa League, la chiama Uefa. Lapsus che rimanda a un calcio di molti anni fa. “Tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011 avevo percepito un cambiamento. Stava diventando tutto troppo un business e quelli che erano una volta dei punti di riferimento dello spogliatoio, che vivevi come una famiglia, venivano trattati quasi come degli ingombri. Prima eravamo amici, dopo siamo diventati solo tanti giocatori, come in un subbuteo. Sentivo perdersi l’umanità del calcio e questo mi dava molto fastidio. Ho sempre creduto nelle persone e nel rapporto, anche senza essere diplomatico”. Così, decise di smettere. Continua a p. 2.