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Data: 11/02/2020 -

Dal dramma al calcio in Portogallo. Luis Asue: "Gioco anche per mia madre"

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Questa è la storia di una vita. Come tante? Purtroppo sì. Una di chi prova a rialzare la testa dopo un dolore e un male indicibili. La luce dopo il buio. Che in quel caso è notte profonda. È la storia di Luis Miguel, un ragazzino. Viene dalla Guinea Equatoriale, compirà 19 anni il prossimo luglio ("Sono del 2001 - tiene a precisare - su internet i dati sono sbagliati"). Da piccolo aveva un sogno, quello di diventare calciatore. Lo insegue con tutte le sue forze.

La storia e la tragedia

Come tanti suoi amici, Luis Miguel Nlavo Asue gioca a pallone fin da quando era piccolo. Viveva nel quartiere Paraiso della capitale Malabo. Una zona residenziale, non particolarmente ricca. Sua madre glielo diceva sempre: “Devi studiare”. “Ma io preferisco giocare”. “Bene, allora devi fare entrambi, se vuoi diventare uomo”. Perché uomo, Luis, lo è diventato molto presto. Troppo. Era a scuola quella mattina di maggio. Da qualche settimana era eccitato: “In Portogallo ti vogliono, c’è lo Sporting Braga”, gli diceva il suo agente, Mikael Silvestre (qui l’intervista all’ex nerazzurro). Mancavano tre giorni al provino, la sua vita cambierà per sempre. Stava tornando a casa, c’era la polizia davanti alla sua porta: “È successo qualcosa di brutto”.

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Rapina a mano armata, la mamma non ce l’ha fatta. “Per me è stato un colpo tremendo”, racconta a Gianlucadimarzio.com. “Mamma voleva che continuassi con il calcio ma anche – e soprattutto - con gli studi. Nei mesi dopo mi sono completamente isolato, ma ho saputo affrontare il mio dolore. E mi sono dato forza per fare quello che mi piace: giocare”. Parla in spagnolo, ha la voce ferma. Trema solo qualche volta. “Stavo per partire, ero spaventato. Tante persone mi sono state vicine: i miei fratelli, mia zia, tutta la mia famiglia e i miei compagni di scuola. Senza di loro, non so con quanta forza avrei potuto affrontare tutto questo”.

"Prima o poi tornerò"

La cosa che colpisce è la calma con cui ne parla. Non deve essere facile. “Io non voglio che si dica che il calcio mi abbia salvato. Non è così. È stata semplicemente la mia prima opzione, mi è sempre piaciuto giocare. Io mi sento un calciatore. E infatti, dovessi diventare davvero un professionista, farei di tutto per permettere al mio paese di coltivare la cultura e la cultura dello sport. Ci sono bambini che non possono studiare per assenza di scuole, talenti che giocano per strada. Mi piacerebbe aiutare così”, dice. È la lezione della mamma, che non smette di dimenticare.

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La mia famiglia mi manca, e anche i miei amici. Non li vedo da tanti mesi”. Da quando, cioè, lo Sporting Braga lo ha ingaggiato. Perché la storia di Luis Miguel è questa: la speranza dopo tanto, troppo orrore. Per la cronaca, è un trequartista di grande talento, gioca titolare nella selezione primavera e ha segnato 6 gol in 17 partite. “Qui sto benissimo, e per fortuna con la lingua me la cavo”, sorride. La testa è al pallone, il pensiero a volte è verso casa casa sua. Non parliamo di rinascita, nemmeno di salvezza. Questa è la storia di una vita e di un obiettivo. Quello di poter dire: “Guarda, mamma. Ce l’ho fatta”.



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