L’altra volta ci è andato leggero, stavolta ha voluto esagerare: “Ha mirato, vero?”. Ovviamente sì. E quel “wow” che precede il boato dell’Olimpico è un prologo già noto. Nessuna improvvisata, destro all’incrocio e “Milinkocrazia”. Dopo qualche mese di “ostracismo forzato” è tornato a governare. Perché il “Sergente” in campo detta una legge tutta sua, va così da due anni.
Salta di testa e arriva prima, protegge la sfera e poi la gestisce, osteggia l’azione del Toro e ripulisce palloni sporchi. Insostituibile. Il gol del pari è un biglietto da visita da tirare fuori nelle occasioni migliori. Del tipo: “Piacere, mi chiamo Milinkovic e segno gol così”. Ok, assunto.
Il “Sergente” illumina il gioco e stavolta non piange più, esulta e basta, circondato dai compagni. La squadra di Inzaghi crea molto ma chiude l’anno con un pareggio (Belotti segna su rigore e illude il Toro). Milinkovic segna e ringrazia De Silvestri, l’ex di turno fermato dalla “sfiga”. Il suo destro da due metri finisce in curva, Milinkovic sfrutta l'errore e punge come ai vecchi tempi.
Quelli belli, decisamente migliori, 12 reti in Serie A e le sirene di mercato che lampeggiano. In estate hanno bussato in tanti, la Lazio non ha mai aperto: “Milinkovic è un patrimonio del club, non si muove da Roma”. Male all’inizio, meglio alla distanza: dopo la rete con il Cagliari arriva anche il guizzo con il Torino.
Il 2018 si chiude alla grande, era iniziato quasi allo stesso modo (doppietta contro il Chievo il 21 gennaio). 9 reti, 4 assist, il Mondiale di Russia da titolare e un rinnovo di contratto arrivato ad ottobre. Nel mezzo, una Champions sfumata in 5 minuti. Impossibile dimenticarlo, doveroso fare meglio.