Gian Piero Gasperini deve tutto alla Juventus. Nel settore giovanile dei torinesi è diventato calciatore e da lì è cominciata anche la carriera da allenatore. Il legame con i torinesi è fortissimo ed è cominciato quando l'allenatore del Genoa aveva appena 9 anni. A raccontare la sua storia ci pensa lo stesso Gasperini, attraverso le pagine del Corriere dello sport: "Ho cominciato a giocare a calcio quando ho imparato a correre. Il cortile era fatto di terra battuta, i pali della porta erano delle piante. Ci si ritrovava lì a scuola finita e si smetteva quando la luce si dileguava. Giocavamo in tredici o quattordici, avevo sei o sette anni. Erano partite interminabili e meravigliose. Inventavamo regole e improvvisavamo decisioni tecniche, come quella in base alla quale i più scarsi andavano in porta o all’ala sinistra, come se il primo e l’ultimo numero della squadra fossero meno importanti degli altri".
Poi i bianconeri: "Entrai a far parte della Juventus a 9 anni. Tardelli, Zoff, Benetti, Cabrini… la rosa era molto ristretta e, per fortuna loro e del calcio italiano, non si facevano quasi mai male. Io mi allenavo con loro e il Trapattoni, devo dirlo, mi seguiva con molto affetto. Ma le gerarchie erano fissate dal merito, mica chiacchiere. Una volta, in una partitella, mi azzardai a fare un tunnel a Furino. Mi diede tante di quelle scarpate che ancora le ricordo. Eravamo un gruppo di ragazzi molto forti. Allora giocavano solo italiani e per arrivare in prima squadra dovevi essere davvero forte. C’era una selezione fortissima ma si aprivano anche opportunità vere".
Opportunità che oggi sono drasticamente diminuite per i giovani: "Oggi ci sono rose molto più ampie e, dunque, dovrebbero esserci più possibilità. Ma è molto difficile consolidare, per i giovani, il loro talento e il loro posto in formazione. Vengono acquistati molti giocatori stranieri, non tutti dei fenomeni. Oggi il sistema va contro i giovani giocatori italiani. E, infatti, non si producono più grandi talenti. Investire nei settori giovanili produce risultati differiti, acquistare un giocatore straniero piace ai tifosi e, forse, costa meno. E’ la logica del mordi e fuggi che investe, e corrode, tutta la società italiana, in ogni campo. Ci vorrebbero meno stranieri, solo i più bravi e più italiani, messi nelle condizioni di mostrare in campo il loro talento".
Il Genoa il club più importante della carriera da allenatore: "Io sono otto anni che sono al Genoa. La grande parte della mia carriera di allenatore si è svolta a Marassi. E’ una città dove si sta benissimo e io sto benissimo. Ma so che, in ogni cosa, c’è un inizio e una fine. Io oggi spero che la fine sia la più lontana possibile. Ma , come è naturale e ovvio, sono anche pronto a questa eventualità. Quest’anno forse c’è stato qualche problema con la struttura, non necessariamente con il Presidente. Ma questi si superano. Per me quest’anno la cosa più bella, oltre ai risultati, è stato l’affetto del pubblico, il suo calore, il modo in cui l’ho sentito vicino. Una riconoscenza così e un amore, da me ricambiato, non mi capiterà mai più. Genova e il Genoa sono nel mio cuore, per sempre".
Nel futuro potrebbe esserci la Nazionale: "E' chiaro che diventare allenatore della Nazionale è, spero, il sogno di ogni allenatore italiano. E dunque anche il mio. Dovrei però cambiare mentalità. Per come sono fatto io devo stare tutti i giorni in campo, vedere un giocatore crescere, parlare con loro, condividere tempo e pensieri. In Nazionale c’è poco tempo, bisogna più assemblare che creare. Ma ripeto che è un onore anche solo essere citato per il ruolo che fu di Pozzo e Bearzot".
Gasperini parla anche della sua esperinza nell'Inter: "Un’esperienza che, neanche cominciata, era già finita. Mi presero dopo gli esperimenti di Benitez e Leonardo. Allora ero l’emergente e il gioco che facevano le mie squadre piaceva molto. Ma la squadra era nella fase discendente della sua magnifica parabola. Avevano vinto tutto con Mourinho e molti erano in calo fisico, come si sarebbe visto in seguito. Io ero convinto di poter rigenerare la squadra e conferire nuova carica psicologica e agonistica. Ma temo che ad essere convinto di questa possibilità fossi solo io. Non i giocatori, non la società. Insomma non sono stato accettato, con i miei metodi che comportavano un lavoro intenso e nuovo. E non sono stato supportato".