Matteo Mandorlini è Matteo Mandorlini. Capello riccio e biondo, occhi azzurri, giocatore del Padova. E che sia ‘figlio di’ rappresenta “solo un motivo d’orgoglio” per lui. Oggi. “Quando ero più piccolo non ci facevo caso, pensavo solo a giocare e divertirmi. Col tempo mi sono reso conto che la gente è invidiosa, o semplicemente stronza, e qualche pensiero meno positivo me lo sono fatto. Ti dico la verità: a volte mi è pesato. Io però sono cresciuto con i valori del calcio vecchio stampo, quello dove conta solo il campo, dove per arrivare servono sacrifici. A 14 anni ero già fuori di casa per inseguire un sogno. Lo stesso sogno di tanti altri ragazzini. E sono cresciuto velocemente”.
In una mano stringe il cappellino della sua piccolina, con l’altra ci indica dove ha trovato casa. “Qui dietro, zona ospedali”. Ponte corvo? “Ponte corvo, ponte corvo… adesso non esageriamo”. Di Padova città conosce ancora poco ma sembra piacergli parecchio, soprattutto il Prato della Valle. “E’ una delle piazze più belle che io abbia mai visto!". E in estate non ha avuto grandi titubanze nell’accettare questa sfida. “Dubbi? Zero. Ammetto che non sia stato facile lasciare Pordenone perché conoscevo le loro ambizioni, le loro intenzioni anche nei miei confronti. Ma Padova aveva un sapore particolare per me, un fascino tutto suo”. E papà Andrea un pochino c’entra. “Eh sì… allenando qui, sai com’è”. Matteo parla, ci spiega bene, preso dal discorso. Ma la coda del suo occhio non si scolla dalla piccolina che corre divertita qualche metro più in là. Lui è ’88, padre a 25 anni. “All’inizio è stato complicato perché ero giovane. Ma è venuta su bene dai… è brava”. A pannolini è stato fortunato. “Dopo un anno già non lo portava più”. Meno fortuna e molta più bravura in campo, dai quattro gol rifilati al Parma al tris di Venezia: il derby vinto nella 15.a giornata è ancora bello fresco nella sua testa. “Forse la tua miglior partita? Può essere. E’ stato esaltante. Era da un po’ che non vivevo un’emozione così, davvero. E’ stato molto, molto bello”. Al ritorno, tutti a casa in vaporetto. “Non avevo mai giocato a Venezia, che sfacchinata! Il vaporetto poi è una palla assurda” e ridiamo. “Mio fratello me l’aveva raccontato, lui ci ha giocato due anni lì”. Un altro Mandorlini: Davide, ’83. “Adesso gioca in D a Ravenna”. Una famiglia totalmente nel pallone. “Papà Andrea, Davide e Matteo. Altri? No per carità altrimenti mamma si ammazza”. Ma unita da morire. “E’ un valore importante che ci ha sempre trasmesso papà. Quando rientrava dalle partite andavamo sempre a mangiare tutti insieme a casa dei nonni. Col tempo, uguale: finiti tutti gli impegni di ognuno poi ci si riuniva da qualche parte”.
Matteo Mandorlini è Matteo Mandorlini. Quello che “se non avessi fatto il calciatore?” resta zitto per dieci secondi e replica “forse avrei continuato gli studi altrimenti… avrei fatto il calciatore”. Bene. In cameretta tre poster: "Ronaldo e Baggio”. Con che maglia? “Inter, per forza”, altro vizio di famiglia. Il terzo è Paul Scholes. “Il mio idolo in assoluto: avevo miliardi di sue figurine”. Dentro il cassetto “la maglia di Dejan Stankovic”. Matteo entra nel particolare. “Non si può nemmeno parlare di scambio di magliette perché non penso che Dejan volesse la mia o se la sia presa per davvero… ma francamente contava che lui mi desse la sua!”. Concreto e cinico ma il gol è arrivato, dritto nel sette. L’emozione va più a fondo. “Quella volta ho esordito con la maglia del Parma in Coppa Italia, a San Siro. Puoi immaginare”. A proposito, Parma. Non esattamente una parentesi della sua carriera. “Ci sono entrato da giovanissimo e alla fin fine ho trascorso quasi sei anni tra prestiti vari e ritiri estivi. Di quelli della mia età sono stato uno dei primi a salire in Prima squadra”. La foto copertina è all’Olimpico di Roma. “Ho debuttato in Serie A l’ultima di campionato: Lazio-Parma. A 17 anni. E’ stato bellissimo, una soddisfazione che non dimenticherò mai! In panchina c’era Mario Beretta che tra l’altro spesso mi portava anche in trasferta”. Allenarsi con grandi giocatori aiuta a crescere. “Grandi? Fenomeni! Morfeo, Couto, Gila, Bresciano. In trasferta condividevo la stanza sempre con Morfeo, un personaggio clamoroso che fumava come un turco, mezzo pazzo. Uno dei più forti che io abbia mai visto, in allenamento faceva giocate da campione assoluto poi magari in partita si perdeva un po’. Avevo legato molto anche con Corradi! Mi ha sempre dato tante dritte, anche fuori dal campo”. La caccia è una passione vera. “Voglio prendermi la licenza, è un obiettivo. Da piccolo sono stato con papà in Scozia, in posti fantastici, unici. Ma è una tradizione di famiglia, partita da mio nonno”. Pochi tatuaggi ma buoni, con valore. “Ne ho tre. Il primo per mia figlia, gli altri per due persone che non ci sono più come mio nonno e mio zio”. Ama Ibiza. “Si ma non quella degli scoppiati! E’ la nostra tappa estiva fissa, posto incantevole”. E sa l’inglese, il più bravo in famiglia. “Ho studiato il linguistico per qualcosa!”. Scaramantico non lo è. “Più mio padre!”. E domenica 4 dicembre ecco Padova-Pordenone: terza contro prima del girone B di Lega Pro. “Li sento spesso i miei ex compagni, alcuni sono amici veri. Ci siamo messaggiati anche dopo la nostra vittoria sul Venezia”. E se il Padova dovesse vincere, metterebbe la freccia. Matteo mi stoppa. “Zitto, zitto. Non diciamo niente va…”. E per fortuna che non lo era, scaramantico. Capello riccio, occhi azzurri, giocatore del Padova. ‘Figlio di’, ok. Ma Matteo Mandorlini è questo.