Fai soltanto ciò che ti fa sorridere. Una di quelle massime facili a dirsi, non altrettanto a farsi: è innegabile. Tante cose nella vita, spesso, non si possono scegliere. Si è costretti ad eseguirle pedissequamente, punto e basta. Ma non dev'essere questo, pur in una doverosa e realistica premessa, l’oggetto della nostra trattazione. La tautologia non si discute: ‘devo lavorare per vivere’. C’è poco da asserire o da confutare. E’ una giusta e sacrosanta verità, dinanzi alla quale altro non si può fare che prenderne atto.
Delimitato il raggio d’azione del nostro discorso, riprendiamo la nostra tesi (fai soltanto ciò che ti fa sorridere). Un aforisma concettuale estremamente multiforme in un’epoca, quale quella attuale, nella quale siamo sempre costretti a rincorrere, siamo in perenne e perpetua lotta con il tempo. Ci inabissiamo in cinquecentocinquantamila cose da fare, non riusciamo a dir di no. Non riusciamo, neppure per un attimo, a chiuder la porta di casa, a sederci e riflettere. A stare un po’ con noi stessi, a pensare. Non abbiamo più spazio per fare le cose più semplici: leggere un libro, andare a pesca, fare una corsa all'aria aperta. Siamo schiavi di un tempo e di una concezione, in base alla quale più facciamo più dovremmo essere felici. Magari è anche così, lo status di felicità è quanto di più soggettivo ci possa essere, ma non ci rendiamo conto di quanto sia effimera quella gioia. E’ una felicità vuota, ci auto persuadiamo di esser felici ma non sappiamo perché dovremmo esserlo, non ne troviamo il motivo. Ci nascondiamo dietro ad una forma mentis che è totalmente aliena rispetto alla felicità autentica. Rispetto al senso di appagamento dopo un’ora di corsa sotto la pioggia, rispetto alla soddisfazione di aver speso un pomeriggio intero alla realizzazione di un piatto che poi gli ospiti hanno gradito. Forse, e sottolineo forse, dovremmo tornare a scoprire la dimensione più locale della felicità perché in essa vi risiede la parte più vera, l’essenza ultima.
Lo introduciamo così Daniele Casiraghi, trequartista classe ’93 del Gubbio. Calciatore, pescatore e cuoco. Amante della semplicità, ragazzo umile e con i piedi ben piantati a terra, un buono nel vero senso della parola. Sorriso sincero, ordinato. Non a caso lo chiamano Principino, ma nemmeno lui sa il perché. Probabilmente per l'educazione e per il modo di fare, composto e pacato. Un prosimetro di ordine e…fantasia. Alla faccia delle antinomie, lasciamole ben volentieri ai manuali di filosofia… “Sì dai, sono un po’ un mix. 10 marzo (il giorno di nascita) e 10 in campo, son segnali! L’estro è senz’altro importante, in campo e fuori, ma deve essere coniugato ad una sana razionalità”. Come quella con la quale in estate ha scelto di tornare a Gubbio. Intelligenza e riconoscenza, valori importanti per Casiraghi… “A dir la verità avevo altre offerte in C, ma se non avessi fatto il salto di categoria sarei sicuramente tornato qua e così è stato. Gubbio è la mia seconda casa, le persone sono molto alla mano e accoglienti, la città è un gioiello. E poi nella vita mai dimenticarsi di chi ci fa del bene: loro hanno puntato su di me in un momento abbastanza complicato per me a livello calcistico ed io questo non me lo sono certo scordato. Ci tengo a ribadire la bellezza della città: tutta medievale, molto tranquilla. Ora hanno anche acceso l’albero di Natale più grande al mondo: praticamente hanno messo le luci sulla parete di una montagna che hanno usato come “tronco”. Anche se lo spettacolo vero c’è durante la Festa dei Ceri. Mi è bastato star lì un’ora per capire il privilegio e l’onore che comporta indossare questa maglia”.
Parole sincere, non parla mai a sproposito Casiraghi. Non ama gli eccessi. Riflette ben bene il suo carattere, la sua tranquillità interiore. Eppure “le corse” nel senso più letterale possibile, non sono mai mancate. La gavetta al Tritium, la scuola ad un’ora da casa, nemmeno il tempo di pranzare che subito c’era da prender e andare agli allenamenti. Poi a vent’anni il Lecce, tre anni di contratto. La concorrenza di gente come Miccoli, la fine dell’avventura dopo appena un mese e mezzo. Ne ha fatti tanti di sacrifici: in silenzio e col sorriso. Perché, giustamente, i sacrifici fanno parte della vita. E non si possono evitare, in alcun modo. Se ci si pone degli obiettivi, automaticamente essi subentrano. Certo se si vive alla giornata è un po’ diverso, ma i sacrifici non scompaiono mica. Ci sono e basta. E’ come voler cancellare il cielo o colorarlo di arancione. Si può? No, e allora…
“Io ho fatto l’alberghiero, ma non l’ho portato a termine: ho smesso prima di cominciare l’ultimo anno. L’impegno calcistico era diventato troppo gravoso e alla fine ho privilegiato quest’ultimo. Mi piaceva pure la scuola, non andavo male. Sono un grande appassionato di cucina, peraltro. La passione me l’ha inculcata mia mamma che insieme alle sue due sorelle cucinano ventiquattrore al giorno. Io provo a darmi da fare, sono abbastanza tradizionalista ma non disdegno sperimentare, soprattutto quando me lo chiede Cazzola (compagno di squadra). Lui e Pedrelli vengono a casa mia, si siedono e spazzolano via tutto (ride)”. E il piatto forte? Occhio alla risposta, che se ci piace ti bussiamo anche noi alla porta di casa... Come con Chef Andrea Settembrini l’anno scorso a Desenzano del Garda… “Allora, piatto forte non ho dubbi. Un risotto…”. Benissimo, ci piace. Sette, vuoi vedere che abbiamo trovato un degno sfidante… “Risotto alla milanese. Essendo di vicino Treviglio gioco abbastanza in casa. Vi spiego come lo faccio, dai. Prima di tutto metto su il brodo di carne, poi faccio soffriggere la cipolla con un po’ di burro. Scotto il riso, aggiungo una sfumatura di vino bianco, lo zafferano e pian piano il brodo finché non arriva a cottura. Alla fine e questo è il passaggio più importante, ci metto Grana e burro per farlo amalgamare bene. Generalmente ci fermiamo al primo, faccio porzioni abbondanti. Ma all'occorrenza – racconta Casiraghi ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com – posso preparare anche l’ossobuco con i funghi chiodini”. Ci piacciono entrambe le ricette, quindi possiamo già prendere appuntamento per una cena. Magari, anzi, partiamo da merenda. “Qui a Gubbio fanno una crescia, una specie di focaccia, che è la fine del mondo. Si può farcire con costarelle o affettato”. Il planning è veramente perfetto. Spazio (sacrosanto, soprattutto a quest’ora) alla gastronomia.
Ne abbiamo svelate due su tre delle virtù di Casiraghi. Calciatore, cuoco e ne manca una… “Pescatore, perlomeno ci proviamo. Mi piace andare a trote su a Bergamo perché qui non ce n’è. La mia è una pesca da cava. Uso la Bombarda, che è la canna da pesca ad hoc per le trote. Sparo in mezzo al lago questo piombino e pian piano comincio a ritirare. Generalmente abboccano…”.
Abboccano le trote così come gli avversari alle tue finte. Ultimamente non gliela fai vedere mai, eh. Nel 4-4-1-1 di Dino Pagliari con Casiraghi dietro a Marchi. Da grandi maestri d’altronde… “Maestro? Magari!! Diciamo che io ho un idolo assoluto, Alessandro Del Piero. Ho la camera tappezzata di suoi poster. Di lui, oltre alle qualità tecniche fuori dal comune, ammiravo il fatto che facesse parlare solo e soltanto il campo. Un modello, un uomo vero dentro e fuori. Tra poster e magliette ne ho un’infinità. Spero, soltanto, un giorno di poter coronare il mio sogno nel cassetto ossia incontrarlo e stringergli la mano”.
Sogni sinceri, parole sinceri. Ragazzo semplice, Casiraghi. Un esempio concreto, con il suo sorriso costante, di come davvero – se solo lo vogliamo – possiamo trovare la felicità prima di tutto nelle piccole cose.