Fermare il tempo, premere rewind e tornare a dove tutto è nato. Immagini vecchio stampo, talvolta opache, di un ragazzone svedese con capelli corti e ingellati in maglia celeste (quella del Malmoe), con il numero 27 sulle spalle e la voglia di dimostrare a tutti che Zlatan, già a quei tempi, potesse diventare davvero qualcuno. Perchè il calcio, per lui, era già semplicemente vita: 350 ore di scuola saltate per praticare il suo sport preferito, anche contro i consigli nell’apprendere le lingue di Osmanovski (Bari, lo ricordi?) e del presidente del club…
Sugli schermi di tutti i cinema italiani, da ieri passando per oggi, Ibra ha deciso (insieme ai registi Fredrik e Magnus Gertten) di prendersi così (ancora) la scena: un film documentario (Ibrahimovic - Diventare Leggenda) per ripercorrere il suo avvio di carriera, con una videocamera a registrare tanti, piccoli frammenti esclusivi della sua adolescenza. Racconti che in parte avevamo già estrapolato dalla sua autobiografia, ma che con il supporto visivo riportano chiunque, a 360°, all’interno dell’esperienza vissuta dal fuoriclasse svedese nei momenti delle prime esperienze a livello professionistico: dai primi calci al pallone al Balkan al provino al Malmoe, su consiglio di papà, passando per l’esperienza all’Ajax fino all’approdo alla Juventus. Una scalata volta a mostrare l’ascesa di Zlatan, da Rosengard a Torino, con il solito carattere da spaccone o sbeffeggiatore: per informazione, chiedere a giocatori (o tifosi) del Djurgardens, protagonisti contro il primo Ibrahimovic di tante, sentitissime battaglie.
Per arrivare ad essere “Dio”, come si è più volte autodefinito, di tempo ce n’è voluto eccome. Tanti alti e bassi, episodi più o meno positivi, tra lampi di talento puro e scatti di nervosismo ingiustificato: gomitate agli avversari, vari faccia a faccia, un carattere tutt’altro che semplice da gestire, preso da papà Sefik. “A volte sono pesante, lo so”, l’ammissione, poco prima di salutare Malmoe uscendo dal campo in barella per un intervento duro sulla sua caviglia: non il più bello degli addii, per chi veniva già definito “Kunga” (Re) ai suoi tempi, ma Ibra era (e resta) un tipo capace di guardare solo avanti. Passato all’Ajax senza che mamma lo sapesse, scoprendo il tutto grazie ad una notizia apparsa in TV e, non comprendendo bene lo svedese, temendo che a Zlatan fosse successo qualcosa: la stessa che si incazzava quando “Ibra mangia troppo qui”, fuggendo da casa del padre per pranzare o cenare meglio da madre e familiari, e che pianse nel momento in cui suo figlio prendeva la via di Amsterdam.
In maglia Ajax, subito grandi responsabilità: la “9” che fu di Van Basten, gli occhi di tutti su di lui, ma anche la concorrenza di Mido, tra i pochi compagni con lui legò davvero negli anni da lanciere. “Se mi fotti, ti fotto io”: patti chiari e amicizia lunga, firmata Beenhakker, allora dt dell’Ajax. Parole non propriamente prese alla lettera quando in un’amichevole in Nazionale, allargando la gamba, piegava con i tacchetti la caviglia di Van der Vaart. “Non mi piaceva come capitano: avrebbe dovuto dirmi cosa ne pensasse di me. Se parla ancora alle mie spalle gli stacco la testa”: messaggio chiaro, deciso e preciso, nella riunione “distensiva” convocata da Koeman il giorno successivo. Ma Zlatan era già in rampa di lancio: Mido definitivamente scavalcato e salutato dall’Ajax, dopo la discussione negli spogliatoi con l’ormai celebre lancio di forbici dell’egiziano ad un passo dalla testa di Ibra, e pubblico di casa portato totalmente dalla sua, anche controvoglia. Come contro il Nac Breda: fischi allo svedese post discussione con Van der Vaart, risposta con tripletta ed Amsterdam Arena esplosa nel magnifico gol del 3-0, con tutta la difesa avversaria schernita e dribblata.
E dire che per lui, agli inizi, giocare con un pubblico esigente come quello biancorosso risultava un problema: le lamentele nell’ufficio di Beenhakker per i fischi piovuti, il grande calcio mostrato in allenamento e non replicato in partita, come ammesso più volte da Van der Meyde. Uno di quelli con cui Zlatan aveva legato di più, che era “felice quando in partitella giocava con me, e non contro, con quelle gambe lunghe e quell’aggressività”: alla fine, a conti fatti, era solo e comunque questione di tempo. Da Adriaanse a Koeman, dalle intere e noiose giornate tra allenamenti, panchina, divano, computer e telefono all’essere Ibrahimovic e non più solo Zlatan, anche nel nome stampato sulla maglia: facendo ricredere semplicemente tutti, compresi alcuni giornalisti desiderosi di "insultare un immigrato scansafatiche di seconda classe” che a fine stagione, per poco meno di 20 milioni, avrebbe preso la via di Torino. Sponda Juve, naturalmente, dove Capello ne ha eliminato “numeri da circo” rendendolo più concreto sotto porta: Inter, Barcellona, Milan e PSG sono ormai capitoli noti a chiunque, apparsi solamente nella sigla iniziale. Non totalmente, per ora, la prima apparizione in Premier: per un calcio che più di 15 anni fa, paragonato ai partitoni di Del Piero e all’idolatria per Ronaldo, Zlatan definiva letteralmente “una merda”. E in cui ora, a 35 primavere, è finalmente sbarcato. Smentendosi, eccome: ma se in “Diventare Leggenda” ci è stato concesso fare rewind, tornando fino al 1999, Ibra guarda sempre, solo ed esclusivamente al domani. Tipo da fast forward se ce n’è uno…