Innovatore, precursore o, per antonomasia, “Il Profeta di Fusignano”, che tra gli anni ’80 e ’90 riuscì nell’impresa di plasmare il Milan più forte di sempre. Arrigo Sacchi si racconta in un’intervista al Corriere della Sera, partendo dalla sua percezione di calcio e tanti aneddoti dell'esperienza in rossonero:
“Per me il calcio era totalizzante, un’ossessione. Se pensavo ad altro mi sembrava di rubare la fiducia e il denaro di chi credeva in me. Quando ho smesso ho però capito tante cose: sono stato 27 anni in apnea, Maiorca, rispetto a me, era un dilettante. Lavoravo nell’azienda di mio padre e allenavo il Fusignano in Seconda categoria, ma ero lo stesso che poi avrebbe allenato il Milan. Ho sempre cercato di giocare bene e non capivo quando mi dicevano ‘quest’anno dobbiamo salvarci’, perché, secondo me, si deve fare il meglio possibile, non salvarci chissà come, magari per pura fortuna. Non mi sono mai piaciute le scorciatoie. Non sono mai stato esonerato e non sono mai retrocesso, ma ho avuto anche fortuna: le mie partenze erano sempre terribili, ma se vuoi costruire devi prima scavare le fondamenta".
"Al Fusignano - continua Sacchi - credo mi abbiano tenuto anche perché mettevo qualche soldo, alla fine però vincemmo il campionato. Niccolò Machiavelli sosteneva che la fortuna era determinante per il 50 per cento, secondo il mio vecchio motto non superava il 25. La mia fortuna sono stati un paio di sorteggi, all’apparenza sfortunati ma che poi si rivelarono tutt’altro. Ero al Parma, neopromosso in B, in Coppa Italia ci toccò il Milan, dove era appena arrivato Berlusconi, che aveva appena preso cinque nazionali. Nel girone vincemmo 1-0 a San Siro, poi passiamo il turno e negli ottavi ci toccò ancora il Milan, ancora a San Siro, e vincemmo ancora 1-0. Con l’impegno e il lavoro avevamo trasformato un sorteggio sfortunato in un grande colpo di fortuna”.
Che ricordi di quel Milan di Sacchi: ai tempi, senza alcuna ombra di dubbio, la versione rossonera più forte di sempre: “Appena arrivato mi invitarono alla Bocconi e uno studente mi chiese: ‘come pensa, lei che non è stato un grande calciatore, di poter insegnare qualcosa ai campioni del Milan?’. Risposi: ‘per fare il fantino non è necessario essere stato un cavallo’. Fui fortunato, ancora, perché trovai dirigenti pazienti e competenti e giocatori magari diffidenti ma non prevenuti. In sei mesi avevamo vinto tutto poi col Milan e festeggiamo con una cena. Baresi e Ancelotti mi dissero: ‘siamo i migliori del mondo’. Ho guardato l’orologio, erano le 23.30. ‘Siamo i migliori ancora per mezzora, domani si riparte da zero’, risposi”.
Ogni cosa, però, ha una fine. Realizzare, poi, quando arriva il momento giusto di lasciare, non è sempre semplice: “Capii che era il momento di dover smettere a Parma, dove peraltro mi avevano offerto il contratto più ricco della mia carriera. Vincemmo a Verona e non provai niente. Poi telefonai a mia moglie: ‘smetto, non voglio essere il più ricco del cimitero’, le dissi. Andai anche dallo psicologo. Mi disse: ‘non è sbagliato come vivi adesso, era sbagliato come vivevi prima’”.
Determinante fu anche il rapporto col presidente Berlusconi, soprattutto nei momenti difficili: “Ricordo che avevamo perso a Lecce con l’Espanyol, dopo quella partita non dormii e passai la notte a studiare il prossimo avversario: il Verona. La stampa mi attaccava. Chiamò Berlusconi: ‘hai bisogno?’. Io: ‘sì’. Venne a Milanello, parlò alla squadra, spiegò che la società credeva nel mio lavoro e chi non era d’accordo poteva andare via. Quel Milan lasciò il segno sul campo, ma Berlusconi avviò il Rinascimento del nostro calcio: vincemmo noi e per anni le squadre italiane arrivarono sempre in fondo alle coppe. Mi presi molti rischi: ad esempio, dopo una sconfitta, Van Basten parlò alla stampa e venne fuori che non era d’accordo con me. La partita dopo lo portai in panchina: ‘stammi vicino, di sicuro sei in grado di darmi consigli preziosi’. Un’altra società magari mi avrebbe cacciato”. Infine il motto ‘lo spartito conta più degli interpreti’: “I giocatori contano, ma sono come i piloti e devono essere bravi ma avere anche un buon motore. Il gioco, la squadra che funziona, dove tutti danno tutto migliorano il giocatore. Non ho mai pensato che i problemi li potesse risolvere il singolo, anche se ricco di talento e per le mie squadre ho sempre cercato uomini intelligenti, che non si accontentavano, ma che sapevano mettersi al servizio dei compagni. Robert De Niro avrebbe potuto trasformare in un capolavoro Giovannona Coscialunga? No, sarebbe stato un campione in una squadra scadente”.