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Data: 08/05/2016 -

Da La Coruña a Las Palmas: prima le 400 presenze in Liga, ora "El Mago" Valeron si ritira

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Perdóname madre por mi vida lenta”. In un’epoca in cui la rapidità di pensiero e di azione contano più di ogni altra cosa, provate ad accantonare la pazzia e schierarvi dall’altra parte della barricata, insieme ai reietti. Arrancano, si struggono, implorano a chi è più avanti di aspettarli, di andare più piano. Così proprio non ce la fanno, il passo è troppo veloce. Capita però talvolta che in questa schiera di perdenti ci sia qualcuno di diverso, un ragazzo che spesso presenta un corpo mal assemblato e un’aria trasognata, impossibilitato ad accelerare per raggiungere il gruppo di testa ma capace di farlo inchiodare all’improvviso per guardarlo incantato. Si forma un capannello di persone attorno a lui: alto, secco, dinoccolato e a tratti scomposto, sorride a tutti e pare non accorgersi della sua diversità. Ha raccolto un pallone da terra e ci sta danzando intorno, avvolgendolo con la sua figura. Gli spettatori non si consultano neanche, la decisione è chiara per tutti; il ragazzo viene preso in braccio e portato nel gruppo di testa, per insegnare agli schiavi della velocità quanto sia bella la lentezza.

Juan Carlos Valeron è stato premiato per le sue 400 partite nella Liga, un mostro sacro del calcio spagnolo che a quarant’anni suonati continua ad incantare gli stadi della penisola iberica. Nato nel 1975 ad Arguineguin, nell’isola di Gran Canaria, incarnando alla perfezione la cultura isolana e il particolare approccio alla vita che solo i canari sanno avere, “El Mago” è l’emblematica opposizione del vecchio al nuovo, che viene fatto sfigurare mettendo in luce tutte le debolezze che esso porta con sé. È la messa in ridicolo di impianti di allenamento futuristici, tecnologie sportive d’avanguardia, tatticismi esasperanti. In un rettangolo verde in cui ventuno calciatori approcciano il calcio idolatrando l’effige del pressing , Valeron predica la capacità di saper attendere il momento giusto e scegliere la giocata migliore.

“Pesava cinquanta chili, mettendolo in ammollo”, la dichiarazione del primo allenatore che lo vide scendere in campo da bambino, preso per matto a far giocare, sempre titolare, un ragazzino che sembrava uno stuzzicadenti tanto era magro. “El Flaco”, un altro dei soprannomi di Valeron, è paragonabile per l’atipicità del suo modo di giocare, ad Andrea Pirlo: ritmo di gioco blando, velocità di corsa inadeguata, agonismo pressoché inesistente. Accanto a queste particolarità degne di qualsiasi calciatore mediocre, le carte vincenti del fuoriclasse: semplicità nel dribblare, visione di gioco ampia, posizionamento tattico ineccepibile. Valeron è stato l’unico capace di far cambiare idea di gioco ad Arrigo Sacchi, costretto a farlo giocare con continuità nonostante fosse un calciatore lontano anni luce dal suo prototipo di regista nell’ortodosso  4-4-2; i lampi di genio che scaturivano dai suoi piedi divenivano eleganti assist  per i compagni del reparto d’attacco, messi in condizione di dover solamente spingere in rete un docile pallone giunto a loro attraverso irripetibili geometrie.

Las Palmas, Maiorca, Atletico Madrid, Deportivo la Coruna, ancora Las PalmasSi può essere al contempo eterni sconfitti e inimitabili trionfatori? Valeron è considerato il più grande talento spagnolo degli ultimi vent’anni, insieme ad Andrés Iniesta. Con il manchego condivide, oltre alle somiglianze tecniche, un riconoscimento non scritto da parte di tutti i tifosi iberici, essendo sempre stato ben accolto in ogni stadio della penisola; lo stesso Iniesta ha dichiarato che pagherebbe il biglietto ogni volta solo per vederlo giocare, quel Valeron che ha anticipato di dieci anni il tiqui-taca della grande Spagna.

Il rispetto dell’avversario e lo spirito del fair-play accompagnano Valeron in ogni partita, suscitando negli amanti del calcio un remoto senso di compassione per questo giocatore: solo due cartellini gialli in carriera e una resilienza degna di un personaggio epico, con i numerosi infortuni al ginocchio che non ne hanno mai minato la serenità. Nella sua carriera non è mai riuscito a trionfare in Liga, collezionando solo due secondi posti e riuscendo nella non facile impresa di perdere tre finali consecutive di Coppa del Re; con il Deportivo è stato il faro di una squadra fortissima anche in Europa, riuscendo in imprese che hanno segnato la storia del club.

I pochi trofei alzati in carriera fanno da contraltare a una figura maestosa che dimostra ancora oggi di poter esistere in un mondo che lo vorrebbe accantonare. Il 2011 doveva essere il suo ultimo anno con il Depor, dopo dieci anni di gloriose magie e terrificanti infortuni che lo hanno eletto idolo del Riazor, ma il destino ha messo lo zampino per l’ennesima volta nella storia di Valeron: i bianco-blu retrocedono e lui, leader della squadra, si sente responsabile della débacle; non riesce ad abbandonare la nave, non senza averla prima riportata a galla. Scende nell’inferno della Segunda Division a 37 anni, in un campionato da oltre quaranta partite all’anno, e riporta il Depor in Liga, segnando una delle sue conquiste più importanti.

E adesso siamo giunti quasi ai titoli di coda. A quarant'anni El Mago si ritira e oggi giocherà la sua ultima partita con il Las Palmas in casa. Emozione a mille, sicuramente. Elogi a Valeron, un mostro sacro del calcio spagnolo. Ma anche europeo, perché di giocate ne ha regalate anche oltre i Pirenei, sia chiaro.

Osvaldo Soriano, mitologica penna del futbol, riprende le parole di Americo Tesorieri, storico portiere del Boca Juniors, che sembrano esser state scritte per Juan Carlos Valeron Santana: “Ci sono tre generi di calciatori. Quelli che vedono gli spazi liberi, gli stessi spazi che qualunque fesso può vedere dalla tribuna e li vedi e sei contento e ti senti soddisfatto quando la palla cade dove deve cadere. Poi ci sono quelli che all’improvviso ti fanno vedere uno spazio libero, uno spazio che tu stesso e forse gli altri avreste potuto vedere se aveste osservato attentamente. Quelli ti prendono di sorpresa. E poi ci sono quelli che creano un nuovo spazio dove non avrebbe dovuto esserci nessuno spazio. Questi sono i profeti. I poeti del gioco”.

Andrea Zezza



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