Da Messi a Neymar, passando per Cristiano Ronaldo e Bale. Senza dimenticare gli “italiani” Higuain o Pjanic. Cosa hanno in comune questi calciatori oltre alla classe cristallina? Sembrerebbe, alla stregua dei più classici “spaghetti western”, che sul loro capo penda una sorta di taglia al contrario: la clausola rescissoria. Dead or alive, se paghi è tuo.
Beh, non è proprio così, perlomeno in questi termini. Nel rispetto delle definizioni civilistiche del nostro ordinamento, si dovrebbe parlare di clausola risolutiva piuttosto che rescissoria, meglio ancora “clausola penale”, ai sensi degli articoli 1382-1384 del nostro Codice Civile.
Civilisticamente parlando, infatti, la rescissione di un contratto presuppone un’anomalia (stato di pericolo o lesione) verificatasi al momento della conclusione del contratto, diversamente si parla di risoluzione quando i motivi sopraggiungono alla conclusione del contratto, per inadempimento di una delle due parti, per impossibilità sopravvenuta o per eccessiva onerosità.
La clausola impropriamente detta rescissoria, in ambito calcistico, trova il suo fondamento normativo nel principio di diritto romano “pacta sunt servanda”, sancito dal titolo IV del Regolamento FIFA adottato dal Comitato Esecutivo della FIFA il 18 Dicembre 2004 ed entrato in vigore il 1 luglio 2005.
All’articolo 13 del Regolamento, la Fifa sancisce il principio cardine per cui un contratto fra un professionista ed una società può aver fine solo alla sua scadenza o per mutuo consenso, prevedendone (art.14) la possibilità di risolvere un contratto (per giusta causa) senza incorrere in conseguenze di sorta (sia pagamento di un’indennità o imposizione di sanzioni sportive) nel caso di giusta causa (es. mancato pagamento dello stipendio o l’aver disputato meno del 10% delle gare ufficiali durante una stagione).
In caso di risoluzione del contratto senza giusta causa, l’articolo 17 prevede per la parte inadempiente il pagamento di una indennità da quantificarsi secondo alcuni criteri oggettivi definiti in sede di ricorso, oltre alle previste sanzioni sportive nel caso in cui la risoluzione senza giusta causa avvenga durante il cosiddetto “periodo protetto” (tre anni se è stato concluso prima del 28° anno di età, due anni se concluso dopo il 28° anno).
Il comma 2 dell’art. 17 del Regolamento parla in modo esplicito della validità di una clausola “rescissoria” nel momento in cui definisce che “L’ammontare dell’indennità può essere prevista nel contratto o può essere stabilita fra le parti”. Dunque la Fifa sembra quasi incentivare l’uso di tali clausole in caso di risoluzione senza giusta causa, il cui importo vincolerebbe le parti ed eviterebbe giudizi finalizzati a definirne l’importo secondo i criteri su menzionati.
Nello specifico, l’importo dell’indennizzo è dovuto dal calciatore che intende risolvere anticipatamente il suo contratto e pertanto presuppone uno “scontro” implicito con la società titolare dei diritti alla prestazione sportiva.
Nella pratica tale somma viene pagata dalla società che ne vuole acquistare i nuovi diritti, spesso negoziando modalità di pagamento ed anche importo, facendo così perdere le finalità e la ratio stessa della clausola che a questo punto diventa più “mediatica” che reale.
Ritornando all’ordinamento italiano, la clausola impropriamente detta rescissoria, trova la sua validità giuridica negli articoli 1382-1384 del Codice Civile in cui viene definita “clausola penale” la somma, stabilita all’interno di un contratto e concordata tra le parti, dovuta a titolo di risarcimento per l’inadempimento dell’obbligazione ed indipendentemente dalla prova del danno.
Dalla Spagna al Portogallo, dal Brasile all’Italia, nel suo lungo viaggio, la “clausola rescissoria” sembra essersi trasformata, da strumento di tutela in caso di inadempimento, a strumento in grado di dare risalto più che altro al brand del calciatore.
Benedetto Minerva - @BennyJFinance