Oltre quarant’anni dopo, il Mondiale in Argentina del 1978 resta ancora oggi il più controverso torneo di sempre nell’immaginario calcistico collettivo. Un evento sportivo passato alla storia come i ‘Mondiali della vergogna’ in cui la vittoria sul campo dell’Albiceleste non fu che un pretesto, alimentato da una vasta operazione di propaganda, per coprire gli orrori della dittatura di Jorge Rafael Videla, che due anni prima con un colpo di stato aveva preso il controllo del Paese, aprendo una delle pagine più buie nella storia del Sud America.
Una guerra sucia («guerra sporca») che, tra torture, sparizioni e morti, cancellò tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta un’intera generazione di argentini (30mila la stima delle persone sparite) mentre a pochi metri dall’Escuela de Mecánica de l'Armada si giocavano le partite di calcio.
Eventi di cui i giocatori, durante la manifestazione, si dichiararono all’oscuro. Tra questi anche Leopoldo Jacinto Luque, che a 42 anni di distanza, in un’intervista a Clarín ha rivelato per la prima volta dei retroscena inquietanti: “Mi fa rabbia quando dicono che diventammo campioni grazie alla dittatura. Dicevano che andavamo in giro coi militari, invece mi hanno sequestrato, derubato e per miracolo non mi hanno anche ucciso. Ti dico: quando iniziai a camminare verso la radura nella mia testa aspettavo solo il suono dello sparo, il ‘Puum’ che mi avrebbe ucciso”.
L’ex attaccante del River Plate ha raccontato poi l’episodio nel dettaglio: “Mi rincorse un uomo, aveva in una mano il distintivo della Polizia e nell’altra una pistola. Mi si avvicinò e mi chiese i documenti, io li avevo nel portaoggetti. Mi disse: ‘Stai tranquillo perché altrimenti ti stacco la testa con un proiettile’. E ancora: ‘Non alzare la testa, perché te la faccio volare’. Fino a che mi chiese di scendere dall’auto, fu un in quel momento che vidi la macchina che li accompagnava. Scappai tra le erbacce e strinsi i denti, aspettavo solo il proiettile”. Che per fortuna non arrivò: “Sentii andar via un’automobile, era la mia. Mi fermai e respirai”. Luque perse soltanto l’auto, del denaro e alcuni preziosi. Due mesi dopo scoprirono che a derubarlo era stato proprio un militare: “Per paura non dissi nulla”. Preferì il silenzio, fino ad oggi.