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Data: 25/03/2018 -

25 marzo 1928, il calcio entra nelle case degli italiani. Novant'anni fa la prima radiocronaca di una partita

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Gli occhi nel vuoto oppure chiusi. Una voce racconta, l’orecchio ascolta. E vede, perché la radio ha sempre fatto questo: far vedere una partita a chi non la poteva guardare. Potere della parola, oggi didascalia delle immagini televisive, ieri unico appiglio per capire cosa succedeva in campo.

Fantasia, superamento di un limite, avanguardia, rivoluzione. Ecco cos’è stata la radio, la prima a portare il pallone nelle case degli italiani. A farlo diventare un romanzo popolare ogni volta con nuovi protagonisti. Una voce narrante, l’emozione collettiva per gol mai visti. Epica tramandata oralmente, come i racconti omerici.

Il primo cantore è stato Giuseppe Sabelli Fioretti, cronista della Gazzetta dello Sport. Una sedia e un microfono in cima alla tribuna dello Stadio del Partito Fascista, come si chiamava il Flaminio di Roma nel 1928. Era il 25 marzo, si giocava l’amichevole Italia-Ungheria.

Finì 4-3 per gli azzurri, prima vittoria della storia contro i magiari. Una gioia vissuta dai 32mila spettatori presenti e dalle decine di migliaia collegati da casa. La prima radiocronaca di una partita di calcio, il racconto di un giornalista di 21 anni che fino a quel momento si era occupato di sci, atletica, ciclismo e mai di pallone.

Esperimento ispirato dall’Inghilterra. Lì, nel 1927, avevano iniziato col rugby. Teddy Wakelam, cronista della BBC, raccontò da Twickenham la sfida della nazionale inglese contro il Galles. Accanto a lui, sedeva un amico. Alla fine dell’incontro, Teddy gli chiese un parere. È stato splendido”, rispose l’amico, non vedente dalla nascita.

Poche settimane dopo, Wakelam commentò Arsenal-Sheffield. Per farlo, usò uno stratagemma riproposto da Sabelli Fioretti: dividere il terreno di gioco come una scacchiera, caratterizzata da lettere e numeri. “Il pallone si trova adesso in B4” oppure “il traversone è finito in C9”. Battaglia navale applicata al calcio.

Durò poco, perché all’inizio degli anni ‘30 si levò una voce destinata a rivoluzionare nel lessico e nella sostanza il racconto sportivo.

“Signore e signori, è Nicolò Carosio che vi parla da…”. Nato a Palermo, figlio di una pianista inglese e di un ispettore delle dogane siciliano, Carosio nel ’32 propose la sua candidatura come radiocronista. Al provino, inventò un leggendario Juve-Torino. Lo fermarono sul 5-5, mettendogli davanti il contratto. Per quasi 30 anni, il calcio italiano ebbe lui come unica voce narrante. Più romanziere che cronista. Oratoria forbita, enfasi nazionalista e fantasia impareggiabile, descriveva le azioni con suggestive immagini poco conformi alla verità, ma a nessuno importava davvero. Il calcio nel suo racconto diventava letteratura. Aveva studiato il ritmo dei cronisti inglesi, ma a lungo non prese da loro neanche una parola. Mussolini aveva bandito i termini anglofoni dal linguaggio. Carosio fu costretto a trasformare il “cross” in “traversone”, il “corner” in “calcio d’angolo” e il “gol” in “rete”.

Iniziò nel ’33, raccontò la vittoria di due Coppe del Mondo, ma anche sconfitte dolorose, fra cui quella di Belfast che nel ’58 ci escluse dal mondiale prima del via. Fu catturato dalla televisione che ne ridusse le potenzialità narrative e che nel ’70 decretò la sua fine. Durante il mondiale in Messico, gli furono tolte le telecronache dell’Italia dopo un presunto e mai verificato insulto razzista a un guardalinee etiope, colpevole di avere annullato un gol a Riva. Pochi giorni dopo, Italia-Germania 4-3 fu raccontata da Nando Martellini.

Ma già da qualche anno, la voce di Carosio non aveva più il monopolio del pallone. Nel gennaio del 1960 nasceva, da un’idea di Guglielmo Moretti e Sergio Zavoli, “Tutto il calcio minuto per minuto”. Roberto Bortoluzzi a coordinare i collegamenti dai campi principali, Carosio, Enrico Ameri e Andrea Boscione pionieri di una trasmissione che fino al ’78 ha raccontato solo i secondi tempi. Trasmettere l’intera partita, dicevano all’epoca, avrebbe rischiato di allontanare la gente dagli stadi. Tempi diversi, milioni di italiani incollati alla radiolina. La domenica, dopo la messa, il pranzo e il vassoio di paste, aveva acquistato una nuova tradizione.

Un rito collettivo, tutti intorno a un elettrodomestico diventato arma di distrazione di massa. L’attesa per l’interruzione di un collegamento, il segno che era appena successo qualcosa. Il rumore della folla ad anticipare la notizia, le parole del cronista a definirla. Reinvenzione della domenica, sotto sguardi rassegnati di donne trascurate. Quelle lasciate sole, come cantava Rita Pavone, per andare a vedere la partita. O semplicemente per ascoltare Ameri e Ciotti dai campi principali, duellanti come Coppi e Bartali, icone vocali per generazioni di appassionati.

Stili e timbri diversi, la cronaca serrata e incalzante di Ameri contro i ricami lessicali e ironici di Ciotti. Una voce limpida e una roca, due campioni che per trent’anni si sono interrotti, sfidati e persino insultati. Ameri primo campo, Ciotti il secondo. Le loro cronache domenicali venivano vissute da 25 milioni di ascoltatori. La frammentazione del calcio e l’avvento totalizzante della televisione hanno fatto perdere alla radio il ruolo di collante sociale.

Difficile immaginare un tifoso sul divano ad ascoltare la voce di un radiocronista, tuttora compagno fedele nei viaggi in auto. La modernità ha cambiato tradizioni, mezzi e abitudini. Ma la riconoscenza agli aedi del calcio è ancora forte. Un anno fa, la curva dell’Inter dedicava un commovente striscione a Riccardo Cucchi nel giorno del suo addio al microfono. “Simbolo del nostro calcio”, scrivevano. Per qualcuno, la radio è ancora la dimensione più pura del pallone. Poesia nascosta dietro al racconto dell’invisibile. Inevitabilmente oscurata dal televisore, ma ancora viva. Sia nelle partigiane emittenti private, sia nella sua tradizionale sobrietà istituzionale.

Buon compleanno radio, 90 anni e nessuna voglia di spegnersi.



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