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Superlega: aborto di rivoluzione aristocratica in 48 ore

Doveva essere un ‘48. Doveva essere la rivoluzione del calcio dei ricchi. Sembrava ineluttabile e invece potrebbe essere già finita. Come i fuochi d’artificio a Capodanno. Come un temporale estivo. La Superlega si sgretola. In 48 ore.

Nella notte tra domenica e lunedì era iniziata ufficialmente, con l’annuncio di un’agenzia di comunicazione arrivata sulla posta elettronica. “I PRINCIPALI CLUB EUROPEI DI CALCIO ANNUNCIANO LA NUOVA SUPER LEAGUE”. Diceva così quel comunicato. Un po’ tronfio, un po’ impreciso. Perché tra quei 12 convitati mancavano le finaliste dell’ultima Champions League. Niente Bayern, né PSG. C’erano però, confermando le voci corse lungo tutta la domenica sei inglesi, tre spagnole e tre italiane. Come nelle barzellette che raccontavamo una volta. Questa però non faceva ridere. Pochi minuti dopo erano apparsi i comunicati ufficiali dei singoli club. Prima la Juve, poi le altre. C’era tutto: organigramma della Superlega, un logo, una formula e soprattutto le cifre. Tanto alte da sembrare un Everest per il calcio di tutti. Il boato e i fulmini. Tutti insieme.

Ok, ma i soldi chi li mette? La risposta era arrivata lunedì mattina: Jp Morgan, garanzia di liquidità per i 12, anzi no 15, anzi 20. Venti di tempesta, 15 club fondatori – ma 3 ancora misteriosi – e 5 invitate. Criteri ancora da definire. Lunedì mattina eravamo tutti zombie, aggrappati alla retorica e ai ricordi. Al pensiero che riapriranno gli stadi presto ma chissà se rivedremo la Juve perdere sul campo di una provinciale. Dubbio legittimo, perché intanto dalla UEFA era arrivata la reazione. Si facciano la loro Lega quella “sporca dozzina” (copyright cinematografico Ceferin), ma nelle competizioni nazionali non giocheranno più. E scordatevi di vedere i tesserati di quei club nelle nazionali. Una guerra mondiale. Iniziata di notte e proseguita in Svizzera, stato neutrale per definizione. Lì, nella pace di Montreux, si era riunita l’Uefa. Per annunciare la Champions che verrà dal 2024. Quella a 36, più larga e più ricca. Non abbastanza, secondo i 12 club riottosi. E indebitati. Troppo da proseguire con il sistema UEFA.

Pensiero prima paventato nei comunicati e poi esplicitato da Florentino Perez nella notte tra lunedì e martedì al Chiringuito. “Saremo i salvatori del calcio”, diceva il numero uno del Real Madrid e della nuova Superlega. Eppure quel miliardo di tifosi sbandierato dalla sera prima sembrava già avergli voltato le spalle. Prima sui social, poi davanti agli stadi. Addirittura dentro. Non con i tifosi, ma con i giocatori del Leeds che affrontavano il Liverpool. La squadra di Bielsa contro quella di Klopp. Due sognatori improvvisamente catapultati su due mondi paralleli ma ancora per 90 minuti tangenti. “Guadagnatevelo”, urlavano le scritte sulla maglia di quelli del Leeds nel riscaldamento. Portavoci universali di un malumore montante.

Alfieri di un sentimento tradito, quello interpretato nel pomeriggio da Ceferin con parole durissime contro il suo ex amico Agnelli. Che intanto aveva lasciato l’Eca, chiudendosi in un silenzio rumoroso. Il Leeds aveva pareggiato nel finale, manifesto di resistenza. E mentre il mondo si dibatteva in analisi finanziarie, i governi alzavano la voce. Boris Johnson, Macron, Draghi, tutti contro chi aveva deciso di abolire il merito sportivo, declassando il calcio a esibizione ben retribuita. Una comunione d’intenti ribadita nelle ore successive da quei tifosi che in tutt’Europa faticavano a vedersi come “clienti”. Impauriti e arrabbiati, improvvisamente investiti dalle minacce di esclusione da qualcosa che era sempre stato loro. Il calcio domestico, la religione laica, ma anche le coppe europee di questo finale di stagione.

L’Uefa deciderà venerdì”, si ribadiva da Montreux, corroborata dall’intervento della Fifa, totalmente solidale con l’Uefa. Intanto le parole di Guardiola suonavano come pietre: “Non è più sport se il successo è assicurato”. Anche i giocatori iniziavano a parlare, seguendo l’esempio di Bruno Fernandes, primo fra tutti lunedi a postare che “i sogni non possono essere comprati”. Poche ore per decidere, mentre fuori la pressione popolare continuava a salire. Dai pochi striscioni del lunedì alla folla di Stamford Bridge, antipasto di un Chelsea-Brighton che i tifosi blues hanno provato anche a non far giocare.

Con gli strumenti delle proteste di una volta: mobilitazione e sit-in. Eccola l’aristocrazia in difficoltà. Schiacciata da una presa della Bastiglia globale. Petr Cech in mezzo a quella folla sembrava un re nudo. Un portiere senza mani, un dirigente senza gente. Era lui a pregare quei tifosi di lasciar passare la squadra. Ma quella gente ormai aveva già vinto. Perché intanto il Chelsea stava preparando i documenti per andarsene dalla Superlega. Fuori uno. Intanto Gary Neville, commentatore di Sky Sport ed ex simbolo del Manchester United, postava le caselle di un domino. Domenica era stato il primo a vomitare rabbia contro gli “impostori”. Neanche 48 ore dopo era fra i primi a capire cosa stava per succedere. Le dimissioni di Woodward, ceo dello United, e piano piano le uscite di tutte gli inglesi dal progetto. Anche l’Atletico Madrid mollava. Rivoluzione naufragata. Anche nel silenzio delle italiane. E in parte degli italiani. Che forse, abituati al grottesco, non hanno mai creduto davvero ai ricchi che fanno le rivoluzioni. Non si pronuncia il Barcellona e neanche il Real. Indebitatissimi e pionieri. Eterni rivali e adesso scomodamente vicini. Pensavano di fare un ‘48. Tutto sta per finire. In 48 ore.

Claudio Giambene

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Claudio Giambene

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