Tadej Pogačar e Primož Roglič nel ciclismo, Luka Dončić in NBA, la squadra di pallavolo maschile: negli ultimi anni la Slovenia ha offerto al mondo dello sport diversi fenomeni, capaci di segnare un’epoca e di dominare il campo della propria disciplina. Il calcio finora non ha espresso esempi simili, orfano della generazione dei vari Handanovic e Ilicic; ma il gol del vantaggio contro la Svezia in Nations League potrebbe essere stato l’epifania di un classe 2003 che farà parlare di sé molto a lungo, Benjamin Šeško.
E dire che l’estensione in chilometri quadrati della Slovenia è di poco superiore a quella di una regione italiana, la Puglia, e la sua popolazione – 2,1 milioni di abitanti – è pari a un quarto di quella della Lombardia e inferiore a quella della sola città di Roma. Come fa una nazione così piccola a ospitare quantità così elevate di talento?
Il primo paragrafo della sezione sportiva del sito Slovenia.info recita: “Con gli incredibili successi dei nostri atleti, alcuni pensano addirittura che vengano da un altro pianeta. No, vengono dalla Slovenia“. Che è anzitutto terra di mare e di montagna, e presenta una varietà di panorami, di zone urbane e rurali, favorevole per la pratica di sport che vanno dalla vela al salto con gli sci. Ma non basta la geografia per spiegare i successi sloveni: l’intervento dell’uomo, attraverso la politica, la scuola e la sanità, è stato decisivo per preparare e accompagnare le vittorie degli atleti. Un esempio per ogni ambito: la destinazione di cospicui investimenti (qualche volta provenienti dall’estero, altre dall’Unione Europea) alla costruzione e al miglioramento delle infrastrutture; il lavoro dei tecnici federali nelle scuole, alla ricerca di giovani talenti; il costante monitoraggio dei dati clinici della popolazione. Il risultato? Due sloveni su tre praticano sport ricreativi, gli atleti iscritti nelle varie categorie sono 7000, e alle ultime Olimpiadi di Tokyo la nazionale è arrivata dietro alla sola Norvegia per il rapporto tra numero di medagliati e popolazione.
Altri due fattori che certamente favoriscono gli exploit sono la durata della giornata lavorativa media, inferiore a quella di molti altri paesi, e il PIL pro capite, il più elevato fra gli stati della ex Jugoslavia: insomma, gli sloveni hanno più tempo libero della media e hanno le risorse economiche necessarie per riempirlo. Al solito, però, a esprimere un concetto meglio di ogni dato numerico ci pensano i simboli. Come la festa nazionale dedicata allo sport, o come quel detto secondo cui “in Slovenia le vacanze non sono fatte per riposarsi, ma per fare attività fisica“. Non va sottovalutata infine l’esigenza di una nazione giovane come la Slovenia di trovare un canale attraverso cui distinguersi nello scenario internazionale. Qualche mese dopo la finale dei Mondiali in Russia, Ivan Rakitic disse: “Il nostro obiettivo era anche far vedere al mondo che la Croazia esiste“. Ecco, anche in Slovenia, altro stato sorto negli anni Novanta, hanno in mente un discorso simile.
Quelle appena menzionate sono solo le condizioni di partenza che consentono agli sloveni di emergere quasi in ogni disciplina. A stupire è però anche un altro elemento, la ricorrenza di specifiche caratteristiche atletiche, psicologiche e biografiche negli atleti.
La prima è l’adattabilità: a squadre, paesi, contesti diversi. Merito della naturale predisposizione degli slavi ad apprendere qualsiasi lingua e a padroneggiarla come se fosse la loro: Dončić è cresciuto (sportivamente) a Madrid, Šeško in Austria. Ma la versatilità degli atleti sloveni riguarda anche le diverse discipline che praticano. Dončić da bambino praticava con buoni risultati anche calcio e judo, per esempio. Ma il caso più emblematico è quello di Primož Roglič. Nel 2007 diventa campione del mondo junior di salto con gli sci a Tarvisio; pochi mesi dopo, una caduta nella prova di Planica, dovuta al vento, lo obbliga a smettere. “Si ritenga fortunato, non era scontato che tornasse a camminare“, gli dicono i medici. Lui comincia a praticare uno sport misto di corsa e bici, appassionandosi a quest’ultima: divenuto ciclista professionista molto tardi, vincerà una Liegi Bastogne Liegi e tre edizioni consecutive della Vuelta.
La seconda è la precocità. Nel 2020 Tadej Pogačar è diventato il secondo ciclista più giovane della storia a vincere un Tour de France (peraltro battendo Roglič alla penultima tappa). Si sarebbe poi ripetuto nel 2021. Quest’anno, invece, Luka Dončić ha completato il record di 40 triple doppie realizzate prima della soglia dei 23 anni d’età. Questa capacità di bruciare le tappe porta gli atleti sloveni a essere selezionati per programmi di apprendimento sistematici, come quello che definisce il “DNA” Red Bull: ed ecco che Šeško completerà la trafila Liefering-Salisburg-Lipsia che compete a ogni calciatore europeo che entri nell’azienda.
Infine, la prorompenza fisica: la Slovenia sembra aver trovato la “formula magica” per produrre gli atleti del futuro. Pogačar sovverte la “legge non scritta” del ciclismo secondo cui col suo peso non si possono vincere indifferentemente classiche, cronometro e grandi giri. Dončić ha lavorato a lungo su un fisico complesso, tendente all’ingrassamento, affilando un’arma letale che travolge gli avversari sul suo cammino. E infine Šeško, che chiamano già “il piccolo Haaland”: tecnica in velocità, cinetica e classe applicate a 1,95 m di altezza. Insomma, se vogliamo intuire quale direzione seguirà lo sport nei prossimi 15-20 anni, non serve aguzzare troppo la vista: basta guardare a un piccolo paese che ha deciso di tracciare la strada.
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