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Serie A, ecco perché ci sono così tanti infortuni. E la sfortuna non c’entra nulla

Il momento è delicato. Già, non siamo davanti al più lieto degli incipit, semplicemente di mezzo c’è la realtà. Nuda e cruda. Perché in Serie A, e più in generale nel calcio italiano, qualcosa non funziona come dovrebbe. Questione di tattica e vittorie? Non proprio, anche se i risultati del campo sarebbero la logica conseguenza del tema che – per primi in Italia – abbiamo deciso di portare finalmente alla ribalta: ovvero quello dei troppi e ingiustificati infortuni nel nostro campionato. Sì, è il caso di andare dritti al punto, ammettendo che i dati in gioco sono davvero allarmanti. E allora, prima di capire assieme il perché di questa enorme sequenza di traumi, è giusto far parlare i numeri. 63 (borsino destinato a crescere e in aggiornamento continuo, senza contare i calciatori da poco recuperati). Sì, sessantatre, non milioni di euro o bonus, ma la cifra dei giocatori attualmente out per infortunio in Serie A (in Premier, a oggi, gli indisponibili per infortunio ammontano a 48). E alcune squadre italiane, senza entrare subito nello specifico, sembrano fatalmente vessate da una terribile epidemia. Anche se, forse, come sosterrebbe la stragrande maggioranza degli addetti ai lavori, è soltanto colpa del caso. Della serie: “Siamo perseguitati dalla sfortuna. Forse dobbiamo lavorare di più…”. Esatto, trattasi dell’annoso ritornello di chi non cerca di andare oltre la banalità. Di chi non ha voglia e tempo di capire perché sempre più giocatori continuino a rompersi crociati e a subire vere e proprie ecatombe muscolari. Insomma, noi di GianlucaDiMarzio.com abbiamo deciso di andare oltre, facendoci strada nel nostro viaggio grazie al migliore degli alleati: la biologia umana. Non solo, con noi ha deciso di partecipare anche Claudio Tozzi, il più grande esperto di preparazione atletica sulla forza in Italia e autore di BIIOSystem, libro bestseller sull’allenamento. Tra gli allievi di Tozzi, oltre a numerosi sportivi, c’è stato anche Tiberio Ancora: attuale consultant personal trainer/nutritionist del Chelsea e uomo fidato di Antonio Conte. Non proprio un allenatore e una squadra a caso, perché il modello di allenamento Blues è uno dei pochi ad avvicinarsi alla perfezione. A quello che semplicemente, sin dal Paleolitico, ci ha imposto madre natura.

La sfortuna c’entra poco, molto poco

Attenzione, meglio fare una premessa doverosa: la componente del caso a volte ci mette lo zampino. Roba imprevedibile. “Certo, quando l’avversario ti entra col piede a martello, quando sbatti la testa, allora lì c’è poco da fare. Ma questi sono da chiamare semplici incidenti di gioco, che tra l’altro capitano con meno frequenza nel corso di una stagione rispetto agli altri infortuni (dagli strappi ai crociati che saltano, passando per stiramenti e contusioni varie). Qui, invece, la componete della sfortuna non c’entra proprio nulla”, spiega Claudio Tozzi. Entriamo quindi nel dettaglio, dentro il nostro corpo:Gli infortuni dipendono dai troppi chilometri percorsi dai giocatori rispetto alla biologia umana. In particolare la miglior performance, farà strano leggerlo, si ottiene con molte meno ore di allenamento e con una maggiore intensità e qualità. Il tutto seguito e accompagnato da un adeguato recupero e riposo“. Ed è proprio il concetto di riposo quello trascurato dagli allenatori. Prima di entrare ancor più nello specifico e capire quali sono gli errori del sistema di preparazione atletica italiano, è buona cosa interpellare la scienza e la storia della biologia umana.

Con il corpo umano non si scherza

Noi siamo delle creature intelligenti. E non è solo una questione di cervello e pensiero, ma anche motoria: “Sì, il nostro corpo ci dà sempre dei segnali. Dei campanelli di allarme”. Ok, ma il fisico di un calciatore di Serie A non dovrebbe essere sempre in forma, sempre ben allenato? “Già, è proprio qui che casca l’asino: ci insegnano, dalle facoltà di Scienze Motorie fino ai corsi di Coverciano, che più ci alleniamo, più corriamo, più fatichiamo e più saremo performanti. In fondo tutta la Serie A fa così. Più lavori, meglio è, più correrai in settimana e meno infortuni avrai”. Beh, chiaro: “E invece no, ma non lo dice Claudio Tozzi, lo dice la biologia umana: il corpo umano è un retaggio di milioni di anni di evoluzione in cui non ha mai corso tanto come i calciatori. Il nostro retaggio è fatto per raggiungere un massimo giornaliero di 10/15 chilometri al giorno, ma non di scatti, ma di camminata moderata. Questo per chiunque. E’ chiaro, poi, che ci sono delle persone con una maggiore resistenza delle altre”. Ma nel concreto, l’evoluzione quanto e come ha sviluppato la forza e la capacità di resistenza alla sforzo dell’uomo? “A questo proposito faccio riferimento ad uno studio del 2013: “Gli atleti olimpici devono allenarsi come nel paleolitico?” pubblicato sulla rivista “Sport Medicine” (agosto 2013) e redatto in collaborazione tra le Università di scienze motorie di Brasilia (Brasile), La Coruña/Vigo/Leoia (Spagna) e Santiago del Cile (Cile). In pratica i ricercatori propongono il fatto che gli atleti hanno in comune che sono tutti homo sapiens e suggeriscono che gli adattamenti dell’allenamento sono potenziati se lo stimolo è molto simile al modello di attività degli antenati umani”. E com’era questo stimolo? “Intenso e infrequente. Nello specifico è dimostrato che nel paleolitico l’uomo percorreva 10-15 km, con una stima di energia misurata di circa 3.000-5.000 kcal / giorno. Questo approccio è in accordo con recenti studi che hanno descritto un risultato migliore di allenamento nei soggetti che regolavano il loro carico di allenamento, a seconda dello stato del loro sistema nervoso autonomo”. Ma i nostri calciatori come si allenano? “Normalmente in una partita un giocatore di movimento compie circa 7-13 km a partita. Ma le squadre di serie A che fanno le coppe giocano anche tre partite a settimana, quindi un calciatore può fare 21-36 km a settimana, più tutti quelli percorsi in allenamento. In realtà non sarebbe nemmeno questo un gran problema, in quando all’epoca ci riposavamo per circa 7-15 giorni, il tempo di rigenerare mente, muscoli e articolazioni”. Già, ma al giorno d’oggi è tutta un’altra storia: “Nel calcio moderno sembra impossibile che ci si fermi forse anche solo per un giorno, figuriamoci una settimana o due. Nessuna squadra lo potrebbe fare, o forse sì se si allenasse principalmente col pallone. Provando tecnica, schemi, situazioni di gioco, tattica e posizioni in campo. Ah, c’è un altro concetto sottovalutato (nonostante sia di una banalità assurda): una partita di Serie A, ma anche di Terza Categoria come di Champions League, è già di per sé un allenamento. E anche bello intenso. Per questo è inspiegabile l’idea degli allenatori, in particolare dopo le sconfitte, di bacchettare i propri ragazzi con ulteriori sessioni fisiche”. (Entreremo poi nel dettaglio di come la preparazione e la gestione fisica dei giocatori andrebbe rivista).

Perché saltano tutti questi crociati?

In effetti, alla luce della classica cultura del lavoro e del sudore, fa specie pensare al volume troppo alto di allenamento come principale causa degli infortuni sportivi. Tuttavia, oltre a quanto detto sopra riguardo la sentenza della biologia umana, è un attimo capire come un calciatore possa oltrepassare i propri limiti fisici: “dal lavoro atletico giornaliero, magari in doppia seduta, magari con i gradoni, contando le tre partite settimanali tra campionato-coppa europee-coppa italia-amichevoli è ovvio che i km percorsi, fatti in prevalenza di scatti, senza mai riposare, possano solo provocare affaticamenti e traumi”. Anzi, “l’infortunio è il modo del nostro organismo per dirci che ci stiamo allenando troppo. Non potendo dircelo a voce, “manda” il dolore a qualche muscolo e/o articolazione a comunicarcelo, quasi a farci capire: “adesso ti faccio fermare per forza cosi non insisti a correre ancora”. Le sessioni quindi, soprattutto quelle a stagione in corso, non devono essere dure, ma semplicemente efficaci. Ah, non è tutto da buttare, perché esempi di preparatori atletici vincenti ce ne sono – in particolare all’estero. In Italia, però, nella maggior parte dei casi gli allenatori non tengono minimamente conto dei limiti della fisiologia umana. Lavoro, lavoro e ancora lavoro. Sempre e comunque. “Nonostante tutte le prove, in pochi cercano di ascoltare il corpo dei giocatori, eppure sarebbe una scelta davvero vincente . Quella del duro lavoro sul campo, del lavoro fisico, è davvero una scusa ridicola”. Di mezzo, certamente, ha un ruolo chiave la genetica e il fisico del giocatore in questione. Ultimo il caso di Milik, all’interno di un Napoli al primo posto in Europa nella classifica delle squadre con meno infortuni. E quindi Claudio, come si spiega il caso del polacco? “Milik avrebbe bisogno di un lavoro specifico, differente. Probabilmente i suoi muscoli andrebbero rinforzati, magari le sue articolazioni andrebbero studiate a fondo. Una squadra non è un esercito di soldatini. Purtroppo c’è tanta superficialità. Tutti i giocatori, atleticamente parlando, si allenano allo stesso modo. Ci sono giocatori che nel corso di tutta la carriera non hanno mai avuto infortuni, altri che sono perseguitati. Muscoli deboli o deviazione della colonna vertebrale inficiano sull’angolo di appoggio delle ginocchia. Potrebbe essere il motivo dei problemi di Milik. O forse Arkadiusz è il ragazzo più sfortunato al mondo, ma non credo proprio. Il ginocchio sta sotto la coscia, se quest’ultima non è abbastanza muscolosa non lo protegge”, spiega Claudio Tozzi. E guarda caso i calciatori più muscolosi (con i quadricipiti possenti) sono quelli che subiscono meno traumi e infortuni. La prima parte delnostro approfondimento termina qui. Ma ripartiremo presto, dal metodo vincente di Antonio Conte alla differente preparazione atletica degli altri campionati.