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Sacchi: “I litigi con Van Basten e Baggio? Sciocchezze. Vi racconto la verità”

Settant’anni a modo suo. Arrigo Sacchi è stato un innovatore e un maestro, un esempio per tantissimi allenatore di successo, che hanno ammesso senza problemi di aver preso a modello il “profeta di Fusignano”. Nel giorno del suo compleanno, l’ex Ct della Nazionale si è raccontato nel corso di una lunga intervista concessa a La Gazzetta dello Sport. Si parte dal primo approccio con il calcio: “Se devo scegliere un momento preciso dico estate 1954. Sono in vacanza con i miei genitori a San Mauro a Mare. Nello stabilimento balneare c’è un televisore, uno dei pochi a quel tempo. Trasmettono una partita del Mondiale. Io scappo dall’ombrellone e corro là: mio padre mi ritrova dopo un’ora, mi avevano issato su un tavolino perché potessi guardare meglio. Già allora era un’ossessione. Da calciatore comincio ala destra, passo a mediano destro, quindi a terzino destro. E poi… in panchina. Non ero un granché. Correvo molto, avevo resistenza e tanta grinta. Talento? Lasciamo perdere. Scuola? Per carità, non facevo i compiti, non studiavo, se potevo neanche ci andavo a scuola. Ero bravo soltanto in storia e geografia: avevo nove in pagella. Non ero un patacca, cioè uno sbruffone. Ero vivace”. L’allenatore del grande Milan di fine anni ’90 tifava… Inter: “Un giorno il presidente Moratti mi regalò una medaglia d’oro dei tempi di suo padre. Lo ringraziai e gli dissi: ‘Io ho allenato il Milan, ma non sono un pentito. Stia attento, i pentiti sono i peggiori’ “.

 

La grande Olanda di Cruijff, amore a prima vista: “Fine anni Sessanta. Dirigevo il calzaturificio di mio padre, ero in Olanda per lavoro. Fu allora che mi innamorai del calcio totale. Il protagonista era la squadra, non il singolo. Vedere le partite dell’Ajax era come andare a un concerto. Musica armoniosa. Nel 1973 comincio ad allenare il Fusignano, in Seconda categoria. Debutto in trasferta contro il Sant’Alberto. Noi, l’anno prima, ci eravamo salvati all’ultima giornata e non avevamo un soldo. Loro erano favoriti e ci avevano portato via anche il nostro giocatore più bravo: gli davano 60 mila lire al mese. Beh, sapete com’è finita? Abbiamo vinto 2-0 e un dirigente mi disse: ‘Dammi uno schiaffo, Arrigo, così capisco che non sto sognando’. Quell’anno vincemmo il campionato. Liti? Una volta ho messo le mani addosso a un centravanti. Marco Rossi, quando allenavo il Parma. Pensi che in quella partita aveva anche segnato, ma non si era impegnato. Glielo dissi, lui mi rispose male e io lo presi per il collo”. Sacchi racconta come nacque la sua gloriosa storia con il Milan: “Con il Parma affronto il Milan in amichevole e in Coppa Italia. Giochiamo bene. Berlusconi è stupito. Parla con il presidente Ceresini e gli chiede di conoscermi. Il Cavaliere mi dice: ‘La seguirò per tutto il campionato’. Poi mi chiamò al Milan. Il primo anno mi difese davanti a tutti, fece capire che io facevo parte del progetto e che, senza di me, non si sarebbe andati avanti. Fu decisivo”.

 

Grandi successi in rossonero, ma anche grande stress: “Prima della partita dormivo pochissime ore. Ero sempre teso, pensieroso. Studiavo strategie, pensavo a che cosa dovevo dire ai giocatori. Ho dato la vita per il calcio, e il calcio mi ha ripagato. Avversario più difficile? Maradona. Unico, irripetibile. Una personalità pazzesca. Van Basten? Mai una lite. Si è romanzato molto, ma la verità è che tra di noi c’era una grande stima. Dopo una sconfitta i giornalisti andarono da Marco e gli chiesero che cosa pensasse. Lui, abituato alla stampa olandese, si mise a parlare a ruota libera, a dire qual era il suo calcio ideale. Il giorno dopo, le prime pagine dei quotidiani titolavano: ‘Van Basten contro Sacchi’. Lo presi da parte e gli spiegai come funzionava in Italia il rapporto con la stampa. La domenica lo tenni in panchina e gli dissi: ‘Visto che ne sai tanto di calcio, oggi stai vicino a me così mi aiuti…’. A Parma lo tolsi dal campo perché non si impegnava, era il gennaio 1991. Perdevamo 2-0, io ero squalificato e ordinai al mio vice Galbiati di cambiare Van Basten. Marco mi chiese spiegazioni. Gli dissi che stava giocando male. Mi rispose: ‘C’erano altri che giocavano male, perché ha tolto me?’ ‘Perché gli altri correvano, tu no’. Mi chiese quindici giorni di riposo per riflettere. Glieli concessi. Dopo tre giorni voleva essere reintegrato, ma io gli spiegai che mi aveva chiesto quindici giorni e non erano ancora passati”.

Piccoli screzi di mercato con il presidente: “Con Berlusconi voleva Borghi, io Rijkaard. Lo convinsi. Anche in quel caso Berlusconi dimostrò di essere intelligente e lungimirante. Rijkaard fu determinante per il mio Milan. Ancelotti?  Il presidente mi disse: ‘Non posso acquistare un giocatore che ha il 20 per cento di invalidità a un ginocchio’. Gli risposi: ‘Mi preoccuperei se l’invalidità ce l’avesse al cervello’. E Ancelotti venne acquistato. La monetina di Alemao? Tanta rabbia. Ma quella volta ci furono cose poco chiare. Poi ho saputo, però sto zitto sennò mi mettono in galera. Diciamo che la politica non fu estranea a quella vicenda”. Capitolo Nazionale: “Mi vedevano come l’uomo venuto dal nulla. C’era invidia, cercavo di non farci caso. Fu un periodo molto intenso, sentivo una grande responsabilità. Rapporti tesi con Baggio? Sciocchezze. A Usa ’94 lo convocai anche se non stava giocando bene con la Juve. Pensi che ero andato a vedere una partita a Torino, nell’intervallo parlai con l’Avvocato Agnelli e gli chiesi chi dei suoi avrebbe chiamato in azzurro. Mi rispose: ‘Kohler e Moeller‘. ‘Ma sono tedeschi! E Baggio?’ gli feci. Mi sorrise, e da quel sorriso capii molte cose”. Per Sacchi anche un esperienza nell’Atletico Madrid: “Meravigliosa, ho sempre pensato che se non fossi stato italiano avrei voluto nascere in Spagna. Ambiente splendido. Ma io non ce la facevo più. Ero stressato, vuoto. Mi dimisi e rinunciai a un sacco di soldi”.

 

Migliori allenatori di oggi? “Ancelotti, Guardiola e Mourinho. Carlo è un maestro nei rapporti. Pep è un professore sul campo. Mou è carismatico e ha metodi innovativi”. Qualcosa da rimproverarsi? “Nessun rimpianto, nessun rimorso. E invidioso, per fortuna, non lo sono mai stato. Errori commessi? Tanti. Si dice: chi fa sbaglia. È un proverbio giusto. Io ho sempre cercato di fare, fin da quando a diciannove anni sono entrato in fabbrica e non ci avevo mai messo piede e ho cominciato a dirigere l’azienda. Errori ne ho fatti, ma mai in malafede. Consigli ai più giovani? Prima di tutto, lo studio. Andare a scuola. Quella è la cosa più importante. Avere cultura è la vera dote dell’uomo. Poi si va in campo e devono usare prima il cervello e poi i piedi. Bilancio di settant’anni? Mi ritengo fortunato perché ho fatto il lavoro che mi piaceva e che mi ha permesso di vivere bene. Ma ho lavorato, io. E parecchio”.