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L’idolo Baggio, il legame con Auteri e l’amore per la Juve, “Don Fabio Mazzeo” si racconta: “Sono stato in tante piazze calorose, ma Foggia è diversa…”

“I momenti belli bisogna farli durare. Occorre viverli fino alla fine, ma gestirli. Con calma, serenità e lucidità e con la consapevolezza che fare felice tanta gente è il bello del nostro lavoro”. Non sono le parole di uno distaccato, non potrebbero. Perché in questa storia lui ci è dentro completamente: barba, folta, compresa. E’ che Fabio Mazzeo, quello dei 18 gol in 24 partite con la maglia del Foggia, è uno che infonde tranquillità, calma e tanta naturalezza. Sarà forse pure per questo motivo che da qualcuno, sui social, è stato ribattezzato Don Mazzeo. Con tanto di bicicletta e abito da prelato, “in prestito” da Terence Hill e dalla fiction tv. “Quella foto mi fece sorridere. Me la inviarono su whatsapp, me la girò il presidente Sannella”.

Eppure è uno implacabile sotto porta, non perdona e chissà come sarebbe andata senza quei due mesi fuori: “Altre volte avevo subito infortuni, ma mai così lunghi. Si, c’è il rammarico di una parte della stagione vissuta ai margini, ma poi il tempo mi ha saputo ripagare”. Oggi Foggia è innamorata di Fabio Mazzeo, del capocannoniere del girone C della Lega Pro. Lui non si sente uomo copertina, ma ammette di avvertire tanto, troppo, il calore della gente: “Si, sono stato in piazze calde, quasi sempre al Sud. Foggia, però, è diversa. Lo capisci dalla strada, dal numero di persone che ti incontrano, che ti fermano e che vogliono stringerti la mano o scambiare due chiacchiere con te. E’ bello, finisce sempre con un “portaci in serie B”, ma la missione, come dice Stroppa, non è ancora compiuta”.

Dice di non vivere molto la città, eppure a Foggia ci ha portato la famiglia. Moglie e due figli, col secondogenito Nicola che è piccolissimo: “Siamo poco in giro per i tanti impegni domestici. Ho visto poco oltre agli ambienti che frequento quotidianamente. Sono tutto stadio e casa, ma i miei qui stanno benissimo. Mia figlia frequenta la scuola a Foggia, ci siamo ambientati bene”. Magari un po’ manca Salerno, la sua città, nella quale ha avuto l’opportunità di imparare molto da uno che a Foggia conoscono…discretamente: “Zeman mi ha inculcato molto. E averlo avuto ad inizio carriera è stato ancora meglio. Mi ha insegnato da giovanissimo quel qualcosa in più che mi è servita nel corso degli anni. Però chi mi ha dato davvero tanto è stato Gaetano Auteri. Credo che lui sia il top in questa categoria. Ha saputo valorizzare le mie caratteristiche al massimo, e gliene sarò sempre grato”.

A Mazzeo piace il basket perché papà Nicola ci giocava. Era una delle sue passioni sin da piccolo, ma il calcio è diventato ben presto il suo pane quotidiano: “Baggio, Roberto Baggio. Devo a lui la mia fede juventina, la passione per questo sport e la voglia di diventare un attaccante. E’stato da sempre il mio giocatore preferito. Poi, è arrivato il “Fenomeno” Ronaldo e pure per lui nutrivo un’ammirazione fortissima”. In pochi sapranno che, anche all’interno dello spogliatoio, Mazzeo ha un soprannome. “Io sono Pablo. E lo sono senza un perché particolare. E’ un soprannome che mi diede un mio ex compagno di squadra, Eusepi, quando eravamo entrambi a Perugia. Un giorno mi chiamò così e da allora sono Pablo. Le voci nel calcio girano e questo soprannome è arrivato anche a Foggia”.

Divide spesso la stanza con Rubin, uno di quelli che gli ha fatto più assist; con il Lecce, nella partita dell’anno, ha messo a sedere Perucchini e ha fatto esplodere lo Zaccheria: “E mentre lo facevo, non sentivo niente. Quando sono in campo, non mi accorgo di nulla. Non sento cori, urla, non percepisco ciò che mi circonda. Penso solo a fare gol, così, dopo è più bello lasciarsi andare.




A Caserta ho segnato forse il gol più importante domenica scorsa, il più bello, però è quello messo a segno contro la Paganese”. Sinistro a giro da fuori area. E’ sincero, lucido, sobrio e paziente. “Pablo” sta portando il Foggia laddove manca da 19 anni. Come se fosse la cosa più normale del mondo.”


A cura di Antonio Di Donna